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«Di Matteo paga per aver processato la trattativa Stato-mafia»

by Alessio Di Florio
17 Giugno 2020
in L'Opinione
Reading Time: 6 mins read
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«Andrà tutto bene», passera l’emergenza e tornerà tutto come prima. Nelle prime settimane, rinchiusi in casa, questa frase ha riassunto l’ottimismo di chi sembrava non volersi arrendere, convinto che l’Italia avrebbe superato questa terribile crisi. Il passare delle settimane ha tuttavia messo a nudo le contraddizioni e l’anormalità del «paese normale», le sue iniquità, ingiustizie e compromissioni.

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Ne abbiamo ampiamente scritto su queste pagine: la scarcerazione di molti mafiosi, il terremoto che ha investito il DAP e ora il diluvio di pubblicazioni delle chat di Luca Palamara documentano fatti e atti e pongono interrogativi.

Abbiamo contattato Sandra Amurri, una delle più esperte giornaliste d’inchiesta del nostro Paese, fondatrice e oggi inviata de Il Fatto Quotidiano, per approfondire e comprendere con lei cosa è accaduto. Ne è scaturita una lunga intervista: in realtà si è trattato più di una vibrante e appassionata conversazione, che pubblichiamo in diverse puntate.

In alcune intercettazioni è emerso che Palamara chiese che Di Matteo non facesse parte del pool stragi, da cui poi fu estromesso dopo l'intervista ad Atlantide. Quella trasmissione appare quindi sempre più, anche dopo l'intervista allo stesso Di Matteo durante «Non è l'Arena», l'intervento di De Raho e la diffusione di altre chat, l’occasione per portare avanti una decisione già presa?

«Il primo problema sorto intorno a Di Matteo è quello del processo sulla trattativa Stato-mafia, quel processo per la prima volta ha portato alla luce quelle che erano state fino a quel momento delle ovvie deduzioni e che chiunque può aver avuto: quelle stragi non potevano essere solo di mafia.

È impossibile credere che dei mafiosi da soli possano avere, per esempio, traforato un’autostrada e lavorato per mesi senza una copertura e – a distanza di pochi mesi – aver compiuto un’altra strage in via D’Amelio e nessuno sapeva, se non persone che non sappiamo ancora ma sicuramente diverse dai mafiosi, che quel giorno Borsellino sarebbe andato a prendere la madre per accompagnarla ad una visita medica.

E da lì sparì poi l’agenda rossa, con tutto quel che significa. Per la prima volta quel processo, di cui per ora abbiamo solo la sentenza di primo grado e quindi non è una sentenza definitiva, ha affermato che una trattativa c’è stata. Trattativa che doveva servire a fermare la mafia e nel momento in cui pezzi dello Stato si mettono in una condizione di inferiorità rispetto ad un’organizzazione criminale la stessa ne approfitta e alza il prezzo.

Quando l’organizzazione criminale si è resa conto di non poter ottenere quel che voleva ha compiuto stragi, fatti che nel mondo non sono mai avvenuti prima, non ricordiamo in nessun Paese occidentale e democratico che un’organizzazione criminale ha affrontato e sfidato lo Stato con quelle modalità. Di Matteo paga questo: l’aver osato processare una parte dello Stato, ma non è un processo allo Stato nella sua interezza  bensì a quella parte che con la mafia ha trattato. Viene così fermato per un’intervista, con l’estromissione dal pool che stava indagando sulle stragi.

Bonafede, diventato ministro della giustizia, ha necessità di issare una bandiera antimafia – dopo che il Movimento 5 stelle è venuto meno a tutta una serie di promesse che erano state fondamentali per il bagaglio di voti che avevano acquisito – e propone a Di Matteo l’incarico di capo del DAP.

Un ruolo strategico perché la situazione carceraria, come ci insegna la storia della lotta alla mafia, ha sempre avuto un ruolo strategico: il mafioso mette nel conto di poter essere arrestato e condannato anche all’ergastolo, l’importante è come viene detenuto perché se il carcere gli permette di mantenere i contatti e i rapporti con l’organizzazione per lui non è un gran problema. Fondamentali sono quindi le condizioni di detenzione, condizioni che ovviamente devono sempre tenere conto dei diritti umani: Falcone disse che anche quando si trovava di fronte al peggior assassino mafioso non dimenticò mai di avere davanti un essere umano.

Dopo l’offerta a Di Matteo, il giorno dopo gli è stato detto che quel posto era già occupato e assegnato a Basentini. Bonafede chiede a Di Matteo se lo conosce e cosa ne pensa di Basentini, viene da ipotizzare che probabilmente non lo conosceva neanche lui così come probabilmente quasi nessuno l’aveva sentito nominare prima. È chiaro, ma questo dovrebbe dircelo Bonafede, ma non lo dice ed è la domanda chiave e la «prova regina» della sua buona fede, che ha comunicato a qualcuno più in alto della proposta a Di Matteo.

Qualcuno che gli ha dato indicazione di tornare indietro, così viene nominato Basentini. Aggiungo un altro elemento di riflessione finora non emerso: capo del DAP da tre anni era il magistrato di lungo corso Santi Consolo, persona di grande credibilità ed esperienza (ha gestito in Corte d’Appello il primo maxi processo), onorabilità e competenza, Bonafede lo rimosse per nominare Basentini.

Direttore generale era un altro magistrato di grande esperienza cresciuto alla Procura di Palermo: Roberto Piscitello. Di Matteo all’epoca non si espresse pubblicamente, cos’altro avrebbe dovuto fare? Nelle prerogative di un Ministro c’è scegliere chi vuole, non è prerogativa di un ministro sotto il profilo delle responsabilità politiche proporre un ruolo ad un magistrato di quel livello e poi cambiare idea il giorno dopo per affermare successivamente di aver frainteso. La domanda posta in queste settimane a Di Matteo è stata perché non l’ha reso pubblico subito, cosa avrebbe dovuto dire? Apparire come una persona che vuol fare il «protagonista»? Non è assolutamente nel suo stile.

È intervenuto nella trasmissione televisiva di Giletti nel momento in cui il parlamentare europeo del movimento 5 stelle Dino Giarrusso ha risposto ad una domanda: di sapere che c’era stata una trattativa tra Bonafede e Di Matteo ma di non conoscerla.

Giustamente e legittimamente Di Matteo ha telefonato per ribadire di non aver fatto nessuna trattativa e di essere stato cercato, di non aver chiesto nulla ma che gli era stato proposto. Ha quindi solo raccontato i fatti così come si erano svolti. Il ministro Bonafede è intervenuto cercando di rigirarla sul fatto che Di Matteo avrebbe lasciato intendere che lui aveva fatto una scelta diversa perché c’era stata la rivolta nelle carceri. Ma Di Matteo non ha affermato questo ma che in quel contesto c’erano intercettazioni in cui mafiosi esprimevano contro un suo eventuale arrivo al DAP. Come era ovvio che fosse, non poteva far piacere ai boss, lo vedevano come «fumo negli occhi». Anche per aver rappresentato la pubblica accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia».

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2020-06-17 18:30:50

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Alessio Di Florio

Vicedirettore WordNews.it - È nato ad Atessa (Chieti), nel 1984. Attivista e volontario di varie associazioni e movimenti culturali, ambientalisti, pacifisti e di lotta alle mafie. Collaboratore della redazione abruzzese di Pressenza e di TeleJato.it. Ha collaborato con Adista, Primadanoi, Terre di Frontiera, Unimondo, Libera Informazione, Popoff Quotidiano e SocialPress. Ha curato, per oltre dieci anni, il sito personale del giornalista e regista RAI Stefano Mencherini, dove è stata curata la diffusione e la pubblicizzazione del documentario d’inchiesta «Schiavi. Le rotte di nuove forme di sfruttamento», con il quale è stata portata avanti la “Campagna di sensibilizzazione per l’informazione sociale”, in collaborazione con MeltingPot e Articolo21, e per la creazione di un Laboratorio permanente di inchiesta e documentari sociali in RAI, nata per rompere la censura televisiva del documentario d’inchiesta “Mare Nostrum”. Articoli su tematiche sociali e culturali sono stati pubblicati dal mensile Vasto Domani. Per contatti: redazione@wordnews.it

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