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Strage di via D’Amelio, cambiamo il modo di raccontarla

by Serena Verrecchia
15 Luglio 2020
in Stragi di Ieri e di Oggi
Reading Time: 4 mins read
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Ricordo che a scuola, per farci capire la reale portata dell'attacco della mafia allo Stato all’inizio degli anni Novanta, si ricorreva spesso alla metafora calcistica: due squadre contrapposte - una dei "buoni", l’altra dei "cattivi" - che si affrontano su un terreno pericoloso. Chi perde, muore o viene ingabbiato. Ma, naturalmente, tutti fanno il tifo per i buoni. Solo che ad un certo punto i due giocatori più forti, i due numeri 10 di quella squadra, vengono azzoppati e costretti a terminare la partita. Così i cattivi credono di avere la vittoria in tasca e festeggiano. Ma alla fine vengono sconfitti lo stesso. 

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Poi si cresce. E si scopre che, in quella famosa partita, le magliette dei giocatori non si distinguevano poi così bene. Che persino gli allenatori in panchina, i compagni a bordo campo e i tifosi in tribuna non erano poi così schierati. Che in telecronaca raccontavano solo quello che volevano, che l’arbitro spesso e volentieri si girava dall’altra parte e che tutto quel vociare sulle tribune era in realtà un’illusoria enfatizzazione.

A ventotto anni da Capaci e via d’Amelio dovremmo avere il coraggio di voltare pagina, cambiare il tono della narrazione. Abbandonare il confortevole candore delle metafore e dirci finalmente la verità. Innanzitutto per loro, per quei "numeri 10" che sul campo ci hanno lasciato la vita.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati abbandonati dallo Stato, traditi dai loro stessi amici, sacrificati sull’altare di indicibili trattative. Il racconto della verità è innanzitutto una scelta linguistica: quelle del '92 non furono stragi di mafia, furono stragi di Stato-mafia. È una verità che gratta e scalfisce la superficie di tutte le balle accomodanti che ci siamo raccontati per anni. Ma dopo quasi un trentennio, dovremmo racimolare un briciolo di forza e uscire finalmente dalle nostre comfort-zone.

Giovanni Falcone fu ucciso perché era il nemico numero uno di Cosa nostra, ma sulla strage di Capaci ci sono ancora tanti, troppi lati oscuri e zone d’ombra.

Paolo Borsellino fu ucciso 57 giorni dopo. Un tempo talmente breve da suggerire una domanda: perché? Perché la strage di via D'Amelio ha subito un'imprevista accelerazione? Perché ad un certo punto è sorta l'urgenza di eliminare, dopo meno di due mesi dalla morte di Falcone, anche il giudice Borsellino?

Paolo Borsellino era uno degli obiettivi da colpire nel disegno stragista elaborato da Riina, ma la sua esecuzione subì un'indubbia accelerazione, come confermano collaboratori di giustizia e sentenze processuali.

Giovanni Brusca ha confessato ai magistrati di essere stato incaricato da Riina di uccidere l'onorevole Calogero Mannino, un altro degli obiettivi politici nel mirino di Cosa nostra. Ma l'ordine, a pochi giorni dal 19 luglio 1992, venne revocato. C'erano questioni più urgenti di cui occuparsi.

Il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi ha raccontato che Totò Riina, dopo la strage di Capaci, aveva manifestato l'urgenza di uccidere Paolo Borsellino. E lo stesso Riina, intercettato in carcere, ha confermato le dichiarazioni di Brusca e Cancemi quando ha affermato che il piano per uccidere Paolo Borsellino era stato "studiato alla giornata", improvvisato.

Ma perché questo cambio di programma? 

Dopo la morte di Falcone, il giudice Borsellino si stava occupando del rapporto Mafia-appalti, che avrebbe portato allo scoperto alcuni rapporti tra Cosa nostra ed esponenti delle Istituzioni. Ma, secondo la Corte d'Assise di Palermo che ha pronunciato la sentenza nel processo sulla Trattativa Stato-mafia, questo non sarebbe sufficiente a dimostrare l'accelerazione della strage. Come non lo è neppure il timore di Cosa nostra per una eventuale nomina di Borsellino alla Procura nazionale antimafia, che fu più che altro un'idea campata in aria del ministro Scotti.

No, Paolo Borsellino morì anche (e forse soprattutto) per altro.

Il 25 giugno 1992, il magistrato chiese un incontro a Mori e De Donno, gli esponenti del Ros che avevano avviato i contatti con Vito Ciancimino. Tre giorni dopo, il 28 giugno, in aeroporto Borsellino incontrò Liliana Ferraro, alla quale disse di volersi occupare della questione Ros-Ciancimino. Sempre il 25, in un incontro pubblico organizzato da MicroMega, il giudice affermò di essere testimone di alcuni fatti e di volerli riferire all'autorità giudiziaria di Caltanissetta. 

Il 1 luglio, il magistrato stava interrogando il pentito Gaspare Mutolo, ma venne convocato al Viminale dove incontrò il ministro Mancino e Bruno Contrada, di cui Mutolo gli aveva appena parlato.

La signora Angese Piraino Leto, moglie di Borsellino, ha rivelato come, pochi giorni prima di morire, il marito, turbatissimo, le avesse confidato che era in atto "un colloquio tra la mafia e pezzi infedeli dello Stato". Che "il generale Subranni è punciutu", che aveva visto "la mafia in diretta" e che nella stanza da letto dormiva con la serranda abbassata perché "da Castel Utveggio con un cannocchiale potentissimo ci possono vedere dentro casa".

"Materialmente mi ucciderà la mafia, ma la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno".

Paolo Borsellino è stato ucciso perché rappresentava un ostacolo per la trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia? A ventotto anni da via D'Amelio è doveroso iniziare a porsi le giuste domande. E sperare che il copione delle commemorazioni finalmente possa cambiare. Speranze flebili. 

Per fortuna, da quando c'è Salvatore Borsellino con le sue Agende rosse, il 19 luglio in via D'Amelio sono sparite le corone di Stato.

Via D’Amelio è diventata un presidio di lotta e resistenza. Non c’è solo il ricordo, che spesso si sfoca e si opacizza. Non c’è solo la morte, di cui ancora si percepisce il boato. In via D’Amelio c’è vita, c’è forza, c’è coraggio, c'è consapevolezza, ci sono sete di verità e giustizia e, soprattutto, c'è amore.

E questa è l'unica storia che andrebbe raccontata nelle scuole.

 

© Riproduzione vietata

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2020-07-15 19:15:56

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