“Va tutto bene”. È il mantra. Giorgia Meloni lo ripete con la sicurezza di chi, ogni volta che apre bocca, ha bisogno di convincere se stessa prima ancora degli altri. Lo dice a ogni intervista, ad ogni discorso, come una formula magica capace di cancellare la realtà. Peccato che qui, fuori dai palazzi, vada tutto tranne che bene.
Lavoro, sanità, istruzione, cultura. Tutto in affanno. E intanto crescono le spese militari, si stringono accordi discutibili, si racconta un’Italia “centrale” nel mondo mentre nelle periferie si vive con l’ansia addosso e l’acqua alla gola. Siamo governati da un racconto, da una narrazione vuota che non ha nulla a che vedere con la vita vera.
Dicono che i numeri dell’occupazione sono buoni. Eppure ci sono migliaia di lavoratori poveri. Sì, poveri pur lavorando. Contratti a tempo, part-time imposti, paghe da fame e diritti ridotti all’osso. Il lavoro, oggi, non è più uno strumento di emancipazione: è un compromesso al ribasso. Giovani che si spaccano la schiena per 800 euro al mese, quarantenni che tornano a vivere dai genitori, neomamme discriminate, morti bianche accettate come effetto collaterale del “progresso”. Eppure, va tutto bene.
Pronto soccorso al collasso, ospedali con personale allo stremo, liste d’attesa che sembrano trappole a tempo. Ti ammali e devi scegliere: o paghi, o aspetti. E spesso aspettare significa rinunciare a curarti. Intanto si tagliano i fondi pubblici e si favorisce il privato, che diventa l’unica via per chi può permettersela. Il diritto alla salute è diventato un lusso. Ma va tutto bene, no?
Nel Paese dei “piani per il futuro”, la scuola è sempre l’ultima ruota del carro. Classi sovraffollate, docenti precari, strutture fatiscenti, programmi scollegati dalla realtà. Manca tutto: rispetto, visione, soldi. Gli insegnanti sono trattati come missionari, e gli studenti come un fastidio da contenere. Si parla di “merito” come se bastasse una parola per correggere decenni di disuguaglianze. Ma anche qui, a quanto pare, va tutto bene.
La cultura, nel migliore dei casi, viene ignorata. Nel peggiore, ostacolata. Eppure continua a resistere, a produrre bellezza e riflessione. Non grazie al governo ma nonostante il governo. Ieri sera, ai David di Donatello, chi lavora nel cinema e nell’arte ha parlato chiaro: serve rispetto, servono tutele. Perché non si può parlare di “orgoglio italiano” e poi lasciare che chi crea cultura viva di precarietà e invisibilità. I fondi ci sono, ma vanno altrove. E no, non basta sventolare un tricolore su un palco per dire che “la cultura è importante”.
Nel frattempo, in silenzio, cresce un altro bilancio: quello militare. L’Italia ha aumentato la propria spesa per l’acquisto di armamenti e tecnologie belliche, investendo miliardi in strumenti di guerra mentre i cittadini si arrangiano tra bollette, affitti, visite mediche a pagamento e stipendi ridicoli.
Si parla di “sicurezza”, di alleanze, di difesa. Eppure nessuno ha il coraggio di dire la verità: ogni euro investito in armi è un euro sottratto alla scuola, alla sanità, al welfare. Perché i soldi pubblici non si moltiplicano. Si scelgono. E questo governo ha scelto i carri armati al posto delle carrozzine per disabili, i caccia da combattimento invece degli stipendi per gli insegnanti, le bombe invece dei letti in ospedale.
Non è questione di essere pacifisti ingenui. È questione di giustizia. Di priorità. Di coerenza. Perché mentre ci spiegano che “i conti non tornano”, che “bisogna stringere la cinghia”, che “non ci sono risorse”, ci chiediamo: ma come mai i soldi per le armi ci sono sempre?
Ci dicono che siamo un modello, che contiamo di più in Europa, che siamo tornati “protagonisti”. Ma per chi vive con mille euro al mese, per chi aspetta una risonanza da sei mesi, per chi non può permettersi un affitto, per chi è costretto ad andarsene o a rassegnarsi, queste parole suonano come una presa in giro. Viviamo in un Paese che premia l’apparenza e punisce la realtà. Un Paese dove si governa a colpi di annunci, si risponde con gli slogan e si zittiscono le domande con frasi fatte. Dove si normalizza il disagio, si anestetizza la protesta, si ridicolizza il dissenso.
Ma fuori da quel teatrino, la rabbia cresce. E non perché “la sinistra rosica” o “i media esagerano”. Ma perché ogni giorno c’è gente che resiste in silenzio, che prova a vivere con dignità, che vede tutto peggiorare mentre qualcuno continua a dire che va tutto bene.
Allora basta. Basta con le favole. Basta con il reality show della politica.
Però va tutto bene… Ma dove?
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