Cinquanta. Mila. Morti.
È un numero che fa tremare le mani mentre si scrive, che dovrebbe azzerare ogni dibattito, ogni rimpallo, ogni propaganda. E invece no. A Gaza si continua a morire. Soprattutto bambini. Secondo le stime delle ONG indipendenti, almeno 20.000 dei civili uccisi sotto le bombe israeliane sono minori. Neonati, scolari, ragazzine, fratellini. Corpi minuscoli e senza colpa sepolti sotto le macerie.
Non servono più parole, ma azioni. Denunce. Disobbedienze morali.
Eppure, mentre il sangue si rapprende tra le tende dell’UNRWA e le corsie degli ospedali senza medicine, la comunità internazionale volta la faccia. Si preferisce parlare d’altro. Si bolla la parola “genocidio” come eccessiva, esagerata. Ma come chiamare l’eliminazione sistematica di un’intera popolazione – rinchiusa, affamata, bombardata – se non con questo nome?
In sei mesi di assedio, Gaza è stata trasformata da prigione a cimitero. Le infrastrutture distrutte, l’acqua contaminata, i corridoi umanitari negati o strumentalizzati. Le scuole bombardate. Gli ospedali presi di mira. I rifugi diventati trappole mortali. Ogni giorno è un massacro annunciato.
E mentre il governo di Tel Aviv, con la regia di Netanyahu, prosegue l’offensiva, le cancellerie occidentali restano silenti o conniventi, parlando solo di “diritto alla difesa”, dimenticando che il diritto alla vita viene prima di ogni retorica di Stato.
Negare, censurare, oscurare. Anche in Italia. L’INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico – ha impedito la lettura pubblica di una poesia del poeta palestinese Rafat Al Areer (ucciso insieme alla sua famiglia da un raid aereo), considerandola “estranea ai fini statutari”. Ma cosa c’è di più profondamente tragico, universale, “antico”, della morte violenta di un bambino?
Fortunatamente, alcuni attori hanno avuto il coraggio di rompere il silenzio. Di issare un lenzuolo in scena. Di leggere quei versi:
“Se dovessi morire, tu devi vivere per raccontare la mia storia…”
Ecco il cuore della questione. Raccontare. Testimoniare. Non voltarsi dall’altra parte.
Perché oggi chi tace, chi giustifica, chi minimizza, è complice.
Gaza non è solo un conflitto. È una tragedia classica riscritta in chiave moderna: con un popolo condannato a morire, una comunità internazionale che fa da coro muto, e pochi Antigone che osano seppellire i loro fratelli sotto gli occhi ciechi del potere.
Il teatro, la cultura, l’informazione devono avere il coraggio di schierarsi. Perché la neutralità davanti a 50.000 morti è vergogna travestita da prudenza.





