In apparenza, potremmo riderci su. In apparenza. Un cartello stupido come tanti (come tante menti), stampato male, affisso peggio, che urla “non cantare Bella Ciao” accanto al più classico “attenti al cane”. Un’esilarante e stupida provocazione da cortile di provincia. Ma non è solo umorismo becero: è l’eco inquietante di una memoria selettiva, anestetizzata. È un piccolo, ma grande, campanello d’allarme.
E noi, che con gli allarmi veri ci abbiamo fatto i conti nella Storia, non possiamo permetterci di ignorarlo.

I cartelli della vergogna: ieri contro gli ebrei (anche se il sionismo sta facendo peggio del nazi-fascsmo), oggi contro la memoria. Non servono grandi salti logici per ricollegare l’immagine di quel cartello agli avvisi affissi alle vetrine degli anni ’30: “Vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei”. O a quelli che, in un’Italia impaurita e incolta, sbattevano fuori gli immigrati, i “meridionali”, i “diversi”. Non è una forzatura: è la stessa logica di esclusione, lo stesso desiderio meschino di delimitare lo spazio del proprio odio.
Cambiano le parole, resta intatta la violenza sottile, quella che parte dal cartello e finisce per deformare la società.
“Non cantare Bella Ciao” è un ordine, non un consiglio. È un modo per marcare il territorio. Per dire: qui la Resistenza non è la benvenuta. Qui l’antifascismo è un fastidio. Qui la storia la scrive chi ha dimenticato o, peggio, chi nega.
Quel cartello fa paura. Perché quando in un Paese si arriva a considerare pericolosa una canzone (un inno nazionale), non siamo più nella comicità, siamo nella censura culturale, nell’autocrazia strisciante. Oggi è Bella Ciao, domani è il 25 aprile, poi la Costituzione, infine il diritto stesso di dissentire.
Prima vennero per i socialisti, e io non dissi niente, perché non ero socialista.
Poi vennero per i sindacalisti, e io non dissi niente, perché non ero un sindacalista.
Poi vennero per gli ebrei, e io non dissi niente, perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me, e non c’era più nessuno a protestare per me.
Martin Niemöller
Le leggi razziali del ’38 cominciarono proprio così: con parole apparentemente innocue, affisse in luoghi quotidiani. Nessuno si scandalizzò. Ci si abituò. Si normalizzò la discriminazione. E il resto lo fece la Storia.
L’Italia ha un problema: non riconosce più il pericolo quando arriva in abiti grotteschi. Se un politico sbraita contro i partigiani, è solo “una provocazione”. Se un cartello invita a non cantare Bella Ciao, è solo “una goliardata”.
Ma questa è l’arma più sottile del revisionismo: usare la leggerezza per smontare il peso della Storia. Scherzare su tutto per poter sdoganare tutto. Dire “è solo un cane”, per nascondere l’addestramento all’odio.
Non possiamo restare zitti. Ogni cartello che vieta un ricordo, ogni battuta contro chi ha dato la vita per la libertà, ogni gesto che cerca di cancellare l’antifascismo dalle piazze, va affrontato. Va smascherato. E va risposto.
Come? Cantando.
Canta Bella Ciao, canta forte.
Canta davanti ai cani e ai cartelli.
Canta anche se ti deridono. Perché chi canta resiste.
E chi resiste non muore mai.
L’Italia è antifascista. Se ti disturba, leggi la Costituzione
Il TAR annulla i Daspo ai militanti di CasaPound: ma il saluto romano non è un gesto neutro. Il fascismo resta un crimine contro la Costituzione
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha annullato i Daspo urbani emessi nei confronti di alcuni militanti di CasaPound...
Bella Ciao sotto attacco, il saluto romano no: due pesi e due misure nella democrazia italiana?
Nel Paese che si fonda sull’Antifascismo, cantare “Bella Ciao” può costare una denuncia. Intonare un inno alla libertà, simbolo...
Stampa clandestina e Resistenza: come i giornali segreti hanno sfidato il fascismo
La stampa clandestina nella Resistenza: voce libera contro il fascismo Nel buio degli anni del ventennio fascista e durante...
Il fascismo fu complice della ferocia nazista
Rivolgo un saluto di grande cordialità a tutti i presenti, al Ministro, al Presidente della Regione, al Sindaco, al Presidente...









