Secondo uno studio del Williams Institute della University of California di Los Angeles (UCLA) tre talenti LGBTQIA+ su 10 (il 33%) temono ancora di fare “coming out” sul posto di lavoro e lasciano l’azienda per il timore di discriminazioni. Secondo i dati raccolti, in particolare, il timore di subire ritorsioni, esclusioni o pregiudizi influisce in modo diretto sul benessere delle persone e sulla loro produttività.
A spaventare, soprattutto, è il giudizio di manager o supervisor (nel 46% dei casi le persone intervistate evitano di manifestare la propria sessualità a queste figure all’interno della propria azienda), mentre meno influente è il timore di dover affrontare giudizi o stereotipi da parte del proprio team o di colleghi e colleghe (in questo caso il problema ad aprirsi colpisce “solo” il 21%). E, osservando i dati, questi timori parrebbero purtroppo giustificati: quasi 4 talenti su 10 (il 39%), infatti, riportano di aver subito discriminazioni dopo essersi aperti sul posto di lavoro, contro solo poco più di 1 su 10 (12%) di quelli che hanno celato la propria identità. Per quanto riguarda le molestie, invece, queste percentuali salgono purtroppo e rispettivamente al 42% e al 17%. Il sondaggio è stato condotto interrogando quasi 2mila persone LGBTQIA+ e dotate di un impiego nel corso di 12 mesi, tra il 2023 e il 2024.
I dati dello studio denunciano quanto la paura di ritorsioni o discriminazioni sul posto di lavoro sia una realtà drammatica per troppe persone LGBTQIA+ anche perché, come lo studio ha evidenziato, la mancanza di inclusività, reale o anche solo percepita, può essere un pericoloso freno per la retention di collaboratori di valore. Ai dati già menzionati, infatti, bisogna aggiungere come un altro 15% delle persone intervistate, quelle che non hanno abbandonato il lavoro per il timore di essere discriminate, ha comunque preso in considerazione l’idea di lasciare nel corso dei 12 mesi precedenti al sondaggio, anche se poi all’intenzione non ha fatto seguire una vera lettera di dimissioni. E chi rimane, comunque, adotta condotte atte a nascondere la propria identità: quasi 6 su 10 (58%) hanno dichiarato di adottare comportamenti di “copertura” per evitare problemi di qualsiasi tipo. Tra questi, purtroppo, anche il modificare il proprio aspetto fisico, il cambiare quando, dove o con quale frequenza usare il bagno, l’evitare di parlare della propria famiglia o della propria vita sociale sul lavoro.
Le considerazioni in merito alle evidenze registrate non si riferiscono specificamente alla situazione del nostro Paese. In Italia l’indice di discriminazione è desumibile dalle testimonianze rese dai diretti “discriminati” ma manca un’analisi scientifica dedicata. Attingendo alla mia esperienza professionale all’interno dei Comitati unici di garanzia posso garantire che è allarmante. La diversità non la si tollera nella vita sociale e, ancor più vistosamente, nei contesti lavorativi. L’avversare la diversità, direttamente o indirettamente, con comportamenti più o meno palesemente vessatori, è un chiaro sintomo del livello di inciviltà su cui si fondano i totalitarismi.
La vita è diversità. Gli stessi uomini sono portatori di differenti idee e comportamenti. Il traguardo dell’umanità è arrivare a raggiungere un equilibrio. La prima regola di ogni economia è, infatti, l’equilibrio. Perché in una realtà globalizzata e interconnessa, è necessario che insieme alle competenze e all’esperienza, venga riconosciuta la ricchezza della diversità. E la ricchezza della diversità la si può riconoscere solamente se si supera quel modello sociale che pretende di valutare e giudicare le differenze da un’unica prospettiva, piuttosto che da prospettive diverse.
Ricostruire un Paese la cui economia è palesemente poco concorrenziale è possibile solo se non si nega quella Cultura dei diritti nella quale credevano e hanno operato i padri e le madri costituenti della nostra Costituzione. Il rispetto della Cultura dei diritti impone che si riparino le ingiustizie e le diseguaglianze profonde in cui è deragliata la democrazia. Per immaginare il futuro dell’Italia il ruolo e la responsabilità che ciascuno – cittadini e Stato – deve assumersi nella sua costruzione è ineludibile.




