Ci sono giornate in cui le notizie sembrano pezzi di un puzzle impazzito. Ognuna arriva da un angolo diverso del mondo, ma quando le metti insieme ti accorgi che raccontano la stessa cosa: una società che perde punti di riferimento, che si rifugia nella forza, nella paura, nella violenza.
La Polonia che manda quarantamila soldati ai confini. L’Europa che prova a mettere un freno ad Israele, sospendendo aiuti e accordi commerciali. L’America che vede un attivista politico, Charlie Kirk, cadere sotto il fuoco di un cecchino durante un discorso pubblico. Tre fatti lontani tra loro, eppure collegati da un filo invisibile: il segno di un mondo che sta diventando sempre più fragile, sempre più crudele, sempre meno umano.
Varsavia non ha scelto mezze misure: quarantamila soldati schierati lungo i confini con Bielorussia e Kaliningrad. Non è un gesto simbolico, non è una parata militare. È la trasformazione di un confine in una trincea permanente.
Il messaggio è chiaro: “siamo pronti”. Ma la domanda è: pronti a cosa? Alla difesa, certo, ma anche a vivere in uno stato di tensione continua. Un Paese che arma le sue frontiere in modo così massiccio non si limita a rispondere a una minaccia: sta dicendo ai suoi cittadini che la guerra, anche se non c’è, è già dentro di loro, nella loro quotidianità.
E quando la normalità diventa il presidio, la sorveglianza, il sospetto, il confine non è più un limite geografico: diventa uno stato d’animo collettivo.
Ursula von der Leyen ha parlato chiaro: Gaza vive una “carestia creata dall’uomo”, e l’Europa non può far finta di niente. Ha annunciato la sospensione del sostegno bilaterale con Israele, ha proposto di congelare parti dell’accordo commerciale, ha messo sul tavolo sanzioni mirate contro coloni violenti e ministri estremisti.
Non è la fine delle relazioni, non è la rottura totale, ma è un punto di svolta. È la prima volta che Bruxelles ammette che non si può difendere l’indifendibile. Certo, serviranno i voti degli Stati membri, e non tutti saranno d’accordo. Ma il segnale è forte: l’Europa non vuole essere complice.
Eppure anche qui si apre un paradosso: l’Unione si muove quando la crisi è già esplosa, quando il sangue è già colato, quando la fame ha già devastato. Siamo capaci di indignarci, ma raramente di prevenire. La politica dei diritti umani resta più una reazione che una scelta strutturale.
Poi abbiamo il “caso” Charlie Kirk che non era un politico qualunque. Era un volto noto della destra americana, fondatore di Turning Point USA, icona dell’attivismo conservatore più radicale. Le sue idee dividevano, spesso in maniera feroce.
Ma quando un uomo viene colpito da un proiettile mentre parla a un pubblico, la questione non è più se fossimo d’accordo con lui. La questione è che un’idea è stata zittita con un fucile.
Un cecchino ha deciso che il dibattito non serviva più, che la contrapposizione di opinioni poteva essere sostituita dalla morte. Questo è il vero orrore: non l’omicidio di un conservatore o di un progressista, ma l’omicidio della possibilità stessa di parlare.
E qui sta la perdita più grande: abbiamo smesso di vedere l’altro come avversario e lo vediamo solo come nemico. Non importa chi sia l’altro: se non la pensa come noi, può essere cancellato.
Polonia, Europa, America. Tre contesti diversi, tre storie diverse. Ma unite dalla stessa radice: la paura che diventa azione cieca, la politica che si trasforma in campo di battaglia, l’umanità che arretra di fronte alla logica del nemico.
- In Polonia la paura si veste da soldato e si piazza al confine.
- In Europa la paura di perdere dignità politica spinge finalmente a prendere decisioni, ma sempre troppo tardi.
- In America la paura dell’altro si trasforma in fucile puntato, e cancella la differenza tra parola e proiettile.
Ora, la domanda che ci tocca, che non possiamo evitare è “chi vogliamo essere?” Perché quello che vediamo non è “là fuori”, è già dentro di noi.
Vogliamo essere un continente che vive in uno stato d’assedio permanente? Un’Europa che si sveglia solo quando il sangue è già versato? Un Occidente che accetta che il dissenso politico finisca con un colpo sparato?
O vogliamo ancora credere che esista un modo di vivere diverso, che non sia fatto solo di muri, di embargo, di pallottole?
Non serve simpatizzare con Charlie Kirk per provare dolore per la sua morte. Non serve essere polacchi per sentire il peso di quarantamila uomini armati al confine. Non serve essere palestinesi o israeliani per capire che la carestia come arma di guerra è una vergogna universale.
La verità è che stiamo perdendo umanità. Non pezzo dopo pezzo, ma a ondate intere. Ogni volta che sostituiamo il dialogo con la violenza, il coraggio con la paura, la dignità con la convenienza, arretriamo di qualche passo verso un futuro più buio.
La storia ci insegna che quando l’umanità arretra, i muri avanzano. E oggi i muri sono ovunque: ai confini orientali, sulle coste del Mediterraneo, nelle piazze americane. Non bastano a proteggerci, ma bastano a ricordarci quanto siamo diventati fragili e quanto in fretta ci stiamo abituando a tutto questo.





