«I nostri morti oggi urlano»

Dopo la conferma in Appello della sentenza in cui si afferma che i morti del terremoto del 6 aprile 2009 sono morti anche per colpa loro ripubblichiamo la riflessione di Liliana Centofanti dopo la sentenza in primo grado.

«I nostri morti oggi urlano»

Chi trovò la morte la notte del 6 aprile 2009 dopo la terribile scossa delle 3 e 32 che colpì L’Aquila è, in parte, responsabile della sua morte. È la sintesi di una sentenza dell’ottobre 2022, confermata ieri in Appello. Sotto le macerie della Casa dello studente morì Davide Centofanti.

La compianta zia Antonietta, scomparsa a fine aprile 2021, e la sorella Liliana negli anni che ci separano da quella drammatica notte hanno sempre portato avanti la memoria di Davide e si sono impegnate a chiedere giustizia per lui e tutte le vittime. Il Comitato vittime Casa dello Studente ha riunito nel dolore e nella richiesta di giustizia la famiglia di Davide e le famiglie delle altre vittime.

Dopo la sentenza di primo grado una riflessione di Liliana fu pubblicata da Il Fatto Quotidiano. La riproponiamo dopo la conferma in Appello.

Rabbia, dolore, sbigottimento, delusione, amarezza sono i sentimenti che riporta Liliana Centofanti hanno animato quei giorni: “le tastiere si infiamma e forse, per una volta, chi ha da raccontare ci prova”. Reazioni che “si alzano come la polvere di quella maledetta notte, il cui odore rimarrà nelle nostre narici per tutta la vita” perché “da L’Aquila non si torna”. 

Liliana Centofanti ha ripercorso i mesi precedenti la notte tra il 5 e il 6 aprile 2009 e sottolineato come “una sentenza del genere rischia di diventare un pericoloso precedente che esautora chi di dovere dal rispondere alle proprie responsabilità, rimandando il tutto a una comunità di individui preda di un surreale meccanismo di autoregolazione per cui avrebbero scelto una forma di suicidio di massa”, “un pericolo reale di ribaltamento dello Stato di giustizia e dello Stato di diritto alla tutela e alla salvaguardia della vita” aggravando “la percezione della correttezza della giustizia in una società sempre più convinta che la buona condotta sia inutile”.

Da un punto di vista umano, proseguì la riflessione di Liliana Centofanti, “chi rimane è già spinto in un oltre dal quale non si torna”, un limbo in cui “la certezza della pena e del corretto funzionamento della macchina giudiziaria sono l’unico strumento per dare un senso a tutto”.

Un limbo in cui si cerca di “reinventarsi” e pensare che “non è stato tutto vano e che la sofferenza dilaniante può essere trasformata in qualcosa” così come “l’impotenza, l’istinto di arrendersi per non sopportare l’assenza, la rabbia” che “sa diventare cieca”.

C’era chi poteva e aveva la possibilità di agire, sottolineò Liliana Centofanti, e quindi “aveva il dovere di garantire la salvaguardia della vita di ciascuno” e “chi ha responsabilità accertate in una società civile paga”. “Non si può schiacciare tutto indistintamente” ed esistono “gli strumenti per impedire che la realtà in cui viviamo diventi una giungla: si scrive legge, si legge dignità”.

Dopo la sentenza di quesi giorni, si concluse la riflessione pubblicata da Il Fatto Quotidiano, “non possiamo né dobbiamo permetterci di cedere alla disillusione” lavorando perché resti un unicum. “C’eravamo ieri e ci siamo oggi”, da ricordare se un giorno “per stanchezza fossimo tentati di girarci dall’altra parte” e perché la recente sentenza “irride tutti, non soltanto le vittime e noi familiari, ma tutta la comunità che quella notte dormiva in casa perché è così che si fa: di casa si vive, non si muore”.