«Vorrei usare toni pacati». E li usa davvero. Ma dentro quella calma c’è grandine. La telefonata con Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, è la ferita che apre il racconto. «Mi ha fatto più male del proiettile che mi colpì alla gamba», dice. Non è una frase fatta: è la misura esatta della delusione istituzionale. La ricostruzione è secca: contatto su linea non protetta, «toni arroganti», poi una mail «con informazioni sbagliate» firmata dalla segreteria.
Il punto, però, è più largo: «Noi siamo cittadini incensurati. Esigiamo rispetto». Invece, racconta, «per lo Stato siamo “rompicoglioni”».
Ciliberto non si mette al centro come eroe. Si mette in fila, accanto agli altri: Coppola, Carmelina, Piera, i figli di chi vive in protezione. E porta il discorso dove deve stare: la legge.
C’è un articolo preciso, l’art. 17 della legge 6/2018: i testimoni di giustizia possono chiedere di essere ascoltati e devono essere auditi entro 30 giorni. Punto. Non un favore, non una cortesia: una norma.
Secondo Ciliberto, non accade. Le audizioni non si calendarizzano. «La legge c’è, ma non si applica», ripete.
Intanto la vita scorre di lato, storta: traslochi decisi da altri, nomi cambiati, scuole cambiate, funerali saltati. «La sicurezza è intermittente. E la cosa più preziosa che perdi è la libertà».
È qui che il racconto cambia temperatura. Non parla di grandi princìpi, parla di piccole cose che bruciano.
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Andare dal parrucchiere? Diventa un caso.
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Il cane al veterinario della figlia? Impossibile.
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La festa dei 18 anni dell’amica? Saltata.
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Incontrare l’avvocato? «In caserma, in una stanzetta «con telecamere».
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La posta? «Scompare». Le cartelle esattoriali riemergono anni dopo, a valanga.
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Le spese legali? A carico.
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Il lavoro? «Se non avessi vinto un concorso da solo, oggi non avrei sostentamento».
E poi c’è il conto clinico del sistema, quello di cui si parla poco perché fa male: «Impazziti, tentati suicidi, povertà». Non slogan, cartelle cliniche.
Ciliberto disegna una macchina «perfetta sulla carta», il programma di protezione, e un cortocircuito nell’uso: promesse scritte che restano scritte, benefici che diventano labirinti, procedure che si allungano finché le persone si stancano.
Parla del Servizio Centrale di Protezione (SCP): interforze, costoso («83–84 milioni l’anno», afferma), opaco nella valutazione dei risultati. A volte, dice, le notizie filtrano; altre volte gli incontri si fanno in luoghi impropri; spesso gli errori ricadono sulla pelle dei protetti.
Non è una crociata solitaria. È una domanda politica: se il sistema non funziona, riformatelo. Se non volete riformarlo, abbiate il coraggio di dirlo. E, parola sua, «chiudetelo».
C’è una frase che sposta l’asse morale del pezzo: «Siamo il Paese delle commemorazioni». Ogni anno corone, agende rosse, citazioni di Falcone e Borsellino. Il giorno dopo, silenzio.
Nel frattempo, i testimoni di giustizia – quelli che oggi possono evitare domani altre commemorazioni – restano soli. È l’ipocrisia che fa più male: celebrare il coraggio, punire il coraggio.
Qui la cronaca si fa specchio. «Tu lo rifaresti?» – è la domanda che gli fanno tutti. Lui la rimanda a noi: sapendo che dopo la denuncia ti lasciano nel burrone, e quando stai per risalire qualcuno ti pesta la mano, lo rifaresti?
Questa domanda, nuda, vale più di mille report parlamentari. Perché dice una cosa semplice: così si dissuade chiunque a denunciare. E allora vince chi minaccia.
Nomi e cognomi non mancano. Chiara Colosimo per mancato ascolto e contatti impropri; la Commissione ex art. 10 al Viminale (presidente Nicola Molteni) per audizioni negate o derogate; il SCP per falle procedurali e inefficienze.
C’è anche un appello: «Scuse pubbliche» e ripristino immediato delle regole.
Come sempre: diritto di replica garantito. Le porte sono aperte a repliche integrali.
Il racconto non è solo una lamentazione. Contiene proposte operative, tutte verificabili:
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Audizioni entro 30 giorni per i testimoni che ne facciano domanda (art. 17, legge 6/2018).
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Protocollo unico per i contatti: no a linee non protette, sì a tracciabilità e account istituzionali.
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Verifica esterna del SCP con indicatori di performance (tempi, esiti, ricorsi) e cronoprogrammi vincolanti.
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Sportello legale-fiscale dedicato ai testimoni e ai fuoriusciti: copertura spese legali, mediazione su cartelle maturate in anni di protezione.
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Supporto psicologico strutturale per testimoni e famiglie, con percorsi dedicati e piani d’emergenza.
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Tavolo permanente con una delegazione dei testimoni di giustizia: chi subisce il sistema deve co-progettarne la riforma.
Non c’è nulla di ideologico qui. È amministrazione. È rispetto.
In controluce resta la differenza che molti fingono di non vedere: non sono “pentiti”. Sono testimoni di giustizia. Non hanno scelto il crimine; hanno scelto lo Stato. Se lo Stato non sceglie loro, tradisce sé stesso.
«Senza le nostre denunce – dice Ciliberto – molte verità non sarebbero emerse e molte condanne non sarebbero arrivate».
Questa frase dovrebbe stare appesa nell’atrio di ogni ministero.
C’è una chiosa che sembra banale e invece è politica: «Unirsi».
Mettere insieme voci e storie, rompere l’isolamento che è metodo (e arma) contro i testimoni. Perché quando parlano insieme, i palazzi tremano. E la democrazia – quella concreta, con indirizzi nascosti e bollette da pagare – respira.
Fino a quando? Fino a quando la politica avrà il coraggio di fare la cosa più semplice e rivoluzionaria: applicare la legge.
Diritto di replica
Le persone e le istituzioni citate – Chiara Colosimo, Nicola Molteni, SCP, Ministero dell’Interno – hanno diritto di replica. Offriamo uno spazio per una pubblicazione integrale.
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