Il 19 agosto 1936, nei pressi di Granada, i colpi di un plotone improvvisato spensero il respiro di Federico García Lorca. Non fu un’esecuzione: fu un assassinio. Un atto vile e premeditato, compiuto dai fascisti franchisti all’inizio della Guerra civile spagnola.
Uccisero un poeta, un drammaturgo, un uomo libero. Lo uccisero perché aveva scelto la parola contro la menzogna, la libertà contro il conformismo, la bellezza contro la brutalità.
Lorca era figlio dell’Andalusia, terra che aveva cantato nei suoi versi con un’intensità mai vista: i gitani, i contadini poveri, le donne costrette al silenzio, gli emarginati che la società voleva cancellare. Con il Romancero gitano (1928) aveva reso immortale la cultura popolare, trasformandola in materia universale di poesia. Nei suoi drammi – Nozze di sangue, Yerma, La casa di Bernarda Alba – aveva raccontato la violenza delle convenzioni sociali, il dolore delle passioni negate, la lotta soffocata per la libertà.
Era un poeta sovversivo, perché non chinava la testa.
Era un pericolo per il nuovo regime, perché dava voce a chi voce non aveva.
Era intollerabile per i fascisti, perché omosessuale, perché libero, perché sapeva che la poesia non è mai neutra: è sempre un grido, un atto politico, una presa di posizione.
I fascisti lo odiavano per questo. Lo odiavano perché la sua parola era più forte dei loro fucili, perché i suoi versi smascheravano la menzogna di chi prometteva ordine e portava solo morte. Lo odiavano perché Lorca rappresentava ciò che loro non potevano controllare: la libertà dell’arte, la dignità dell’essere umano, la forza dell’amore.
La sua morte fu un crimine contro la cultura, contro la Spagna, contro l’umanità. Ma non riuscirono a zittirlo. Perché la poesia non muore sotto le pallottole. La voce di Lorca continua a vibrare nei secoli, un canto che ancora oggi brucia e illumina.
Chi uccide un poeta non fa che firmare la propria condanna all’oblio.
Ecco la verità che i fascisti non hanno mai capito: Lorca vive ancora, i suoi assassini no.
Io vorrei stare sopra le tue labbra
per spegnermi alla neve dei tuoi denti.
Io vorrei stare dentro il tuo petto
per sciogliermi al tuo sangue.
Fra i tuoi capelli d’oro
vorrei eternamente sognare.
E che diventasse il tuo cuore
la tomba al mio che duole.
Che la tua carne fosse la mia carne,
che la mia fronte fosse la tua fronte.
Tutta l’anima mia vorrei che entrasse
nel tuo piccolo corpo.
Essere io il tuo pensiero, io
il tuo vestito bianco,
perché tu t’innamori
di me d’una passione così forte
che ti consumi cercandomi
senza trovarmi mai.
E perché tu il mio nome
vada gridando ai tramonti,
chiedendo di me all’acqua,
bevendo, triste, tutte le amarezze
che sulla strada ho lasciato,
desiderandoti, il cuore.
E intanto io penetrerò nel tuo
tenero corpo dolce
essendo io te stessa
e dimorando in te, donna, per sempre,
mentre tu ancora mi cerchi invano
da Oriente ad Occidente,
fin che alla fine saremo bruciati
dalla livida fiamma della morte.