Valutare quale impatto ha il genere nel tessuto civile e, in particolare, come esso si collochi in un contesto di ideale giustizia sociale è fondamentale affinché si implementino decisioni politiche che, in tutti gli ambiti interessati (segnatamente quelli economici e culturali) valorizzino concretamente le donne e le cosiddette “minoranze” all’interno delle realtà territoriali, promuovendo misure concrete di miglioramento della qualità della vita indistintamente per tutte le persone.
Ogni decisione politica e di bilancio si rivolge a segmenti definiti della popolazione ma, in uno Stato di diritto1, non può mancare una prospettiva trasversale che consideri la presenza di donne, uomini, persone con altre identità di genere all’interno dei gruppi di beneficiari, sia diretti che indiretti, delle politiche pubbliche.
In uno Stato di diritto ogni decisione di governo deve, in buona sostanza, valutare l’impatto delle pari opportunità in modo trasversale su tutti i settori dell’amministrazione, non solo quelli ad essi correlati.
Con questa visione integrata e trasversale, il raggiungimento delle pari opportunità assume un ruolo centrale nei processi di sviluppo sociale ed economico, poiché consente a un’ampia porzione della popolazione di esprimere appieno le proprie potenzialità, contribuendo significativamente al benessere collettivo, in sinergia con il benessere individuale.
Ciò nell’ottica di costruire comunità consapevoli per arrivare al cambiamento concreto, oggi ancora utopistico, attraverso il ribaltamento degli ancestrali stereotipi culturali ed ideologici in nome di una società in cui venga garantito che ogni persona possa vivere liberamente la propria identità, il proprio credo e il proprio orientamento sessuale.
Un cambiamento che, ripeto, si profila ancora oggi utopistico, lontano dal saldare quel debito culturale che la Rivoluzione francese, nota come espressione del “secolo dei lumi”, aveva contratto con le donne nel momento in cui, nel 1789, riconosceva per “tutti” i diritti civili e politici ma escludendo le donne e inviando sulla ghigliottina Olympe de Gouges per aver denunciato l’omissione.
Un’utopia che, paradossalmente, è stata invece squarciata, sia pure timidamente, nel secolo passato; il più contraddittorio della storia dell’umanità (un secolo piagato da due guerre mondiali, violente contrapposizioni ideologiche, dittature spietate, le rivoluzioni del ’68, il crollo del muro di Berlino, la lotta contro la piaga dell’analfabetismo) dalle lotte vinte per la rivendicazione di quei diritti civili e politici fondanti la cittadinanza sociale (ex multis, il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla previdenza).
Focalizzando, e attualizzando, l’analisi sul gender gap le disuguaglianze trovano rilevanti evidenze nel settore lavorativo.
Fulcro della oramai lontana strategia di Lisbona, già all’inizio dell’attuale millennio l’occupazione femminile è diventata una delle principali leve di sviluppo per realizzare una crescita economica sostenibile e strumento di coesione sociale, configurando dunque un paradigma nel quale investire nella condivisa considerazione che la parità di genere poteva assurgere a volano di crescita economica sostenibile e inclusiva. Da allora nuovi obiettivi, pressoché tutti falliti, sono stati fissati; nuove scadenze sono state disattese mentre nuove importanti sfide, talvolta supportate da ingenti finanziamenti, intervengono nell’imminente orizzonte del 2030.
In una visione socioeconomica obbiettiva è incontestabile che l’uguaglianza di genere si rivela un fattore strategico per l’innovazione, la resilienza e la competitività, in un’Europa attraversata da transizioni ambientali, digitali e demografiche. E proprio nell’accedere ad un’impostazione scientifica è inerziale che le politiche governative dovranno tener conto di importanti transizioni già in atto, quella demografica (in primis), quella green e quella digitale, nella consapevolezza che le scelte di policy effettuate potranno influenzarne gli esiti, configurandole come rischi oppure come opportunità.
In ciò dirimente risulterà integrare gli approcci con il metodo del mainstreaming di genere, al fine di garantire che vengano tenuti debitamente in considerazione gli effetti che tali transizioni possono determinare, non su un teorico soggetto neutro, ma su tutti, uomini e donne, indistintamente.
Quanto appena affermato resta nei fatti una argomentata petizione di principi che non trova nella realtà, segnatamente quella italiana, alcun riscontro fattuale nelle politiche di genere assunte e, si ha fondato motivo di credere, in quelle di medio-lungo periodo.
La sfida della transizione demografica in Italia è noto che condiziona profondamente le questioni di genere. Da un lato, il calo della natalità e l’invecchiamento della popolazione acuiscono il peso delle attività di cura, tradizionalmente affidate alle donne, limitandone la partecipazione al lavoro e alimentando le disparità retributive. Dall’altro, la riduzione della popolazione attiva genera pressioni crescenti sui sistemi previdenziale e sanitario. A ciò va ad aggiungersi, parallelamente agli indubbi benefici, il rischio associato all’uso di innovazioni tecnologiche basate su algoritmi. Tali rischi includono non solo il potenziale per perpetuare bias di genere, ma anche effetti devastanti sull’occupazione femminile se solo si riflette che proprio i settori lavorativi a forte presenza femminile sono quelli maggiormente esposti all’ automazione.
Fotografando tale contesto, il World Economic Forum, nel Global Gender Gap Report 20252, evidenzia che a livello globale i progressi verso la parità di genere sono stagnanti. Gli analisti stimano che saranno necessari 134 anni per raggiungerla, proiettando il traguardo al 2158, oltre un secolo dopo il 2030. Circoscrivendo il Report a settori quali partecipazione e opportunità economiche, livello di istruzione, salute e sopravvivenza, emancipazione politica, l’Italia si colloca tra i Paesi con maggiori criticità, perdendo ben 8 posizioni rispetto o al 2023 e scivolando all’87° posto del ranking mondiale.
Anche la Commissione europea, nel suo più recente Country Report3, evidenzia specifiche criticità relative alla persistenza di gap di genere nell’occupazione, sottolineando il mancato raggiungimento, per il lavoro femminile, del valore target pari al 60% e il posizionamento di 10 punti percentuali al di sotto della media europea. Sul punto va osservato che nei casi in cui gli indicatori registrano un andamento migliorativo, come nel caso della diminuzione del rischio di scivolamento nella povertà che passa dal 25,2% al 24,4%, tale effetto non risulta valido per le donne né per le famiglie con figli e peggiora, raddoppiando, per gli immigrati. Sulla stessa linea il Report del Gender snapshot 2024 pubblicato da UN Women e dal Dipartimento degli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite4, nel delineare un quadro aggiornato sui progressi verso l’uguaglianza di genere realizzato nell’ambito degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), denuncia che, a fronte di un quadro di disuguaglianze di genere persistente, nessun indicatore relativo all’obiettivo 5 (dedicato alla parità di genere) sia stato completamente raggiunto e stigmatizza l’operato dei governi riluttanti ad intervenire attraverso iniziative politiche concrete e mirate.
Le disuguaglianze sul lavoro in Italia5
La Strategia Europea per la Parità di Genere 2020-2025 e la Strategia Nazionale per la Parità di Genere 2021-2026, sono articolate in progetti suddivisi in cinque aree di lavoro: lavoro pagato, lavoro non pagato, contrasto alla violenza di genere, contrasto alle discriminazioni multiple, additive e intersezionali, promozione di una cultura dell’uguaglianza. Al centro del Piano rimane la grande disuguaglianza tra lavoro pagato e non pagato, su cui si basano due delle principali aree di intervento. La prima area di intervento del Piano riguarda il lavoro pagato, un ambito in cui, pur registrando nel territorio metropolitano valori in linea con le medie europee, persistono significative disuguaglianze di genere. Queste si manifestano in termini di: disparità salariali, opportunità di carriera, stabilità lavorativa e permanenza nel mercato del lavoro, qualità delle pensioni. Tali disuguaglianze si amplificano ulteriormente nelle opportunità di accesso al lavoro tra donne che vivono in centri urbani di dimensioni diverse o in territori differenti dell’area metropolitana. Inoltre, è maggiore la presenza delle donne in situazioni di lavoro precario, povero o inattivo, soprattutto in relazione alla genitorialità.
Quale dimensione assume la disuguaglianza di genere in Italia? Nel 2022, il tasso di occupazione femminile in Italia era di poco superiore al 50%, a fronte di una media europea superiore al 65%. Il tasso di inattività femminile rispetto alla popolazione totale delle donne era del 49%, contro il 26% degli uomini, con disparità ancora più marcate in caso di figli. Nel 2023, nel quarto trimestre, il tasso di occupazione complessivo in Italia si attestava al 62,1% (70,8% per gli uomini e 53,4% per le donne). Il tasso di disoccupazione complessivo nello stesso periodo era pari al 7,5% (6,7% per gli uomini e 8,7% per le donne), registrando un calo di 0,4 punti rispetto allo stesso periodo del 2022.
La già difficile inclusione e permanenza delle donne nel mondo del lavoro, soprattutto in presenza di carichi di cura, è confermata dal fenomeno delle dimissioni volontarie legate alla genitorialità. Ciò riproduce le forti disuguaglianze di genere presenti nel nostro Paese, dove l’idea di una genitorialità realmente condivisa fatica a trovare spazio concreto. In Italia, nella fascia di età tra i 20 e i 49 anni, lavora l’83,5% degli uomini con almeno un figlio o una figlia, contro il 55,2% delle donne, con un divario superiore ai 28 punti percentuali, ben al di sopra della media UE (17,9 punti). Questa situazione è confermata dai dati raccolti dall’Ispettorato del Lavoro, riportati nelle Relazioni annuali sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri. Nel 2022, su 61.391 convalide totali, 44.699 (pari al 72,8%) riguardano donne, mentre 16.692 (27,2%) uomini. Questa distribuzione continua a mantenersi costante negli anni.
Le criticità si manifestano vistosamente anche nell’ambito dell’imprenditoria. Stando ai dati contenuti nell’ultimo Report di P101sull’ecosistema dell’innovazione6 relativamente alla managerialità le donne rappresentano circa il 14% dei General Partner (GP) nelle società di venture capital, mentre guidano solo il 13.7% delle startup innovative. Le ragioni macroeconomiche per intervenire sono inerziali: eliminare i divari di genere può generare una crescita dell’8% del PIL nei mercati emergenti e contribuire a un’economia più sostenibile. Cosa giustifica l’inerzia da parte dei decisori politici? La miopia è corroborata da scelte ideologiche suffragate dalla dose di manifesta incompetenza alimentata a sua volta dal cosiddetto Matilda effect (il fatto che i processi di innovazione portati avanti dalle donne sono meno riconosciuti o affiancati da nomi maschili, e, più in generale, tutti quegli stereotipi di genere che rendono spesso difficile per le donne anche solo immaginarsi come imprenditrici o scienziate).
Il tema evidenziato nell’inciso di cui sopra consente di comprendere il motivo per cui le criticità connesse alla sottorappresentazione delle donne nel lavoro sono notevoli anche settore dell’intelligenza artificiale (IA), problema che in Italia è maggiore rispetto ad altri Paesi europei. Infatti, i laureati in discipline STEM sono circa 21 su 1.000 nei giovani europei con un’età tra i 20 e i 29 anni. Le donne laureate sono circa il 15% a fronte di un 28% di uomini. In Italia, ogni mille laureati, 16,4% lo sono in materie STEM e le femmine sono il 13,3% contro un 19,4% di maschi.
Prima parte/la seconda parte domani
1 In uno stato di diritto il complesso delle regole è rispettoso dei diritti di tutti.
La giustizia resta comunque sempre un’aspirazione dialettica che dipende dalla condivisione dei diritti umani e dal grado di impegno nel tutelarli.
2 Il Global Gender Gap Report 2025 valuta i progressi in termini di partecipazione economica, istruzione, salute e leadership politica. L’Europa è al primo posto a livello mondiale, avendo colmato il 75% del suo divario di genere, anche se i risultati variano ampiamente tra i Paesi e il punteggio regionale più alto è stato ottenuto nell’Empowerment politico (35,4%). L’Islanda è al primo posto a livello mondiale con un punteggio del 93%, mentre l’Italia si colloca tra i paesi più bassi dell’UE; https://www.weforum.org/publications/global-gender-gap-report-2025/
3 https://economy-finance.ec.europa.eu/publications/2025-european-semester-country-reports_en
4 https://www.unwomen.org/en/resources/gender-snapshot
5 I dati riportati sono elaborazioni delle rilevazioni statistiche oggetto dei Reports Istat, Censis, CNEL, INPS :https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/03/istat-cnel.pdf;
https://www.censis.it/sicurezza-e-cittadinanza/respect/il-talento-femminile-mortificato





