C’era un cartello, appeso all’alba su un muro di via Carini: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti.” Non era retorica. Era una diagnosi. Il 3 settembre 1982, a Palermo, con la strage che uccise dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo, non cadde solo un uomo: crollò la credibilità dello Stato che lo aveva spedito in prima linea promettendo “super poteri” e consegnandolo all’isolamento.
Pochi mesi prima, 30 aprile 1982, Pio La Torre e Rosario Di Salvo venivano assassinati. La legge che introduce l’associazione mafiosa e la confisca dei patrimoni porta il suo nome, Rognoni-La Torre, ma l’accelerazione definitiva arriverà dopo il sangue di via Carini.
È la cronaca feroce di un Paese che spesso legifera sui cadaveri.
Dalla Chiesa non era un simbolo di cartone. Era il generale che aveva spezzato la schiena al terrorismo, che aveva intuito la forza decisiva dei collaboratori di giustizia e la centralità dei patrimoni criminali. A Palermo arrivò lo stesso giorno dell’omicidio La Torre. Chiese uomini, mezzi, catena di comando chiara. Ricevette silenzi, rinvii, promesse vaghe. Gli apparati che dovevano sostenerlo non si mossero con la necessaria urgenza. I poteri “speciali” rimasero sulla carta. Aveva poco più di cento giorni.
Ai funerali, la gente fischiò i politici. Risparmiò solo Sandro Pertini. È una pagina che andrebbe riascoltata in ogni aula parlamentare: la piazza capì prima di tutti che l’inerzia è complicità per omissione.
Dire “Stato complice” non significa insultare le istituzioni: significa pretendere che rispondano. La complicità può essere materiale, ma spesso è strutturale: non vedere, non decidere, non coordinare, non proteggere. La latitanza amministrativa diventa copertura di fatto. E quando chi combatte viene lasciato senza strumenti, la sconfitta è scritta prima dello scontro.
Dalla stagione apertasi con Rognoni-La Torre nasceranno sequestri e confische che hanno cambiato la geografia del potere mafioso. È merito di quella spinta e delle procure e dei reparti investigativi che l’hanno resa pratica quotidiana. Ma l’antimafia non è una reliquia: è procedura, risorse, dati condivisi, tracciabilità dei flussi finanziari, protezione effettiva dei testimoni e dei servitori dello Stato. Ogni volta che si tagliano fondi, che si indeboliscono i presidi, che si politicizzano le nomine, si riaprono quelle zone d’ombra.
In via Carini non è morta la speranza.
È stato smascherato un alibi. La speranza torna viva solo quando lo Stato mantiene la parola data. Fino ad allora, diciamolo senza veli: promettere poteri e negare strumenti non è solo un errore.
È un tradimento.
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