Il testo legislativo, frutto di un accordo con il Consiglio del febbraio 2025, è stato adottato senza votazione poiché non sono stati presentati emendamenti, in linea con la seconda lettura della procedura legislativa ordinaria.
La nuova direttiva – attesissima da quanti credono che l’ambiente sia un bene prezioso da tutelare – introduce obiettivi vincolanti di riduzione degli sprechi alimentari, da raggiungere a livello nazionale entro il 31 dicembre 2030: il 10% per la produzione e la trasformazione alimentare e il 30% pro capite per i rifiuti provenienti dal commercio al dettaglio, dai ristoranti, dai servizi di ristorazione e dai nuclei domestici. Gli obiettivi saranno calcolati sulla media annua 2021-2023.
Su richiesta del Parlamento, i Paesi UE dovranno adottare misure per garantire che gli operatori economici con un ruolo rilevante nella prevenzione e generazione di sprechi facilitino la donazione di alimenti invenduti ancora idonei al consumo umano.
I produttori che immettono tessili sul mercato UE dovranno sostenere i costi di raccolta, cernita e riciclo, tramite nuovi regimi di responsabilità estesa del produttore, da istituire in ciascuno Stato membro entro 30 mesi dall’entrata in vigore della direttiva. Le norme si applicheranno a tutti i produttori, anche quelli che operano via l’e-commerce e indipendentemente dal luogo di stabilimento. Le microimprese avranno un anno supplementare per adeguarsi.
Le nuove regole riguarderanno abbigliamento e accessori, cappelli, calzature, coperte, tende, biancheria da letto e da cucina. Su iniziativa del Parlamento, i paesi UE potranno estendere i regimi di responsabilità estesa del produttore anche per i materassi.
Infine, gli Stati membri dovranno considerare le pratiche di ultra-fast fashion e fast fashion nel determinare i contributi finanziari per sostenere i nuovi compiti dei produttori.
Gli Stati membri avranno 20 mesi dall’entrata in vigore per applicare le norme nella legislazione nazionale.
Fin qui la notizia, ripeto attesa a molti e segnatamente da chi scrive.
È inerziale chiedersi se le misure adottate potranno essere sufficienti se non interverrà quel radicale cambio di cultura sul quale ambientalisti e non solo insistono da decenni. Negli ultimi decenni, l’industria tessile si è evoluta verso un approccio “fast fashion“: abiti economici, realizzati con materiali scadenti, da indossare solo per una stagione o meno e poi scartati. La produzione e il consumo di tessuti causano notevoli pressioni sull’ambiente e sui cambiamenti climatici. Queste possono spaziare dal terreno e dall’acqua utilizzati per produrre le fibre, all’energia e ai coloranti chimici impiegati nella loro fabbricazione e produzione, fino alla vendita al dettaglio e allo smaltimento. Il consumo di prodotti tessili nell’UE ha causato nel 2020 la terza pressione più elevata sull’uso dell’acqua e del suolo e la quinta più elevata per utilizzo di materie prime ed emissioni di gas serra. Considerando, peraltro, che la maggior parte della produzione avviene in Asia, dove i bassi costi di produzione spesso vanno a scapito della salute e della sicurezza dei lavoratori, il problema assume dimensioni di rilievo umanitario.
La vera sfida contro lo spreco alimentare e l’accumulo dei rifiuti tessili sta nelle scelte di ogni giorno: il cambiamento prende forza quando i cittadini decidono di agire insieme, trasformando azioni semplici in abitudini collettive capaci di rigenerare la città.
La revisione della direttiva rappresenta un passo in avanti importante, ma la partita decisiva si gioca fuori dai palazzi di Bruxelles.
Tocca a ciascuno di noi fare la differenza.
L’uomo non vive nella dimensione individuale ma nella vita di relazione di convivenza con la Natura.