L’attentato a Sigfrido Ranucci e alla sua famiglia ha sconvolto l’Italia intera. L’ordigno rudimentale che ha distrutto le auto del giornalista Rai e della figlia ha scosso le coscienze, risvegliato dal torpore le anime belle di questo Paese orrendamente sporco e infinitamente dormiente.
Un moto di indignazione e shock ha avvolto il Belpaese (che fu) come non accadeva da almeno trent’anni. Eppure, in realtà, in nessuno Stato al mondo che non sia in guerra i giornalisti sono minacciati, uccisi, asfissiati come in Italia.
I dati di Ossigeno per l’Informazione sono implacabili: ogni giorno almeno un giornalista in Italia è minacciato. E spesso sono cronisti locali, sono quasi sempre giornalisti che non hanno grandi editori come la Rai e vengono pagati (quando lo vengono) anche due euro a pezzo. «Quattro centesimi a riga» come sottolinea nel titolo del libro che Lucio Luca ha dedicato alla memoria di Alessandro Bozzo. Un cronista di razza, un giornalista coraggioso che scavava a fondo senza remore e senza indugio, ogni giorno. E per questo scomodo. Un impegno che pagherà con l’isolamento, il demansionamento, con un calvario che lo condurrà al gesto più estremo. Come Pier Paolo Faggiano.
Il giornalismo locale, i cronisti che in provincia cercano di illuminare le zone grigie, sfidando piccoli e grandi potentati sono la spina dorsale del racconto giornalistico, di quella “forza essenziale della società” che ben descriveva il compianto Pippo Fava. Un’importanza che lo stesso Ranucci ricordò l’anno scorso a Vasto, ospite del “Vasto d’autore festival”: «Si deve fare inchiesta a livello locale rafforzando le posizioni e le tutele per i colleghi, per le fonti, perché credo che i colleghi della stampa locale svolgano un ruolo essenziale per lo svolgimento della democrazia. Come un corpo malato abituato della sua malattia tanto da considerarla normalità, noi dobbiamo immaginare la stampa locale come anticorpo periferico che intercetti il male prima che rovini il Paese».
Lo stesso giorno dell’attentato a Ranucci è stato il compleanno di Antonio Russo, il giornalista di Radio Radicale ucciso per le sue inchieste in Georgia. A lui è dedicato un premio che si svolge ogni anno a Francavilla. Tra i premiati quest’anno Daniele Piervincenzi. Intervistato da Il Centro Piervincenzi ha sottolineato le difficoltà nelle sue inchieste, le pressioni e come tutto è cambiato dopo l’aggressione subita ad Ostia. E quanto ogni giornalista che sia giornalista e non impiegato, citando il film Fortapasc dedicato a Giancarlo Siani (e sono migliaia i giornalisti che vivono la stessa “precarietà”), rischia ogni giorno di soccombere alle difficoltà economiche e a minacce che possono essere tombali.
Daniele Piervincenzi non è stato aggredito solo ad Ostia, è accaduto anche in Abruzzo, nel quartiere Rancitelli di Pescara. Quella zona della città adriatica che da cinque anni cerchiamo di illuminare sulle nostre pagine, raccontando i sistemi criminali che vi incombono (l’inchiesta in cui è stato contestato il 416bis per la prima volta contiene elementi che noi abbiamo denunciato sin dai nostri primi giorni) e in cui i giornalisti furono minacciati durante i primi mesi della pandemia, in cui giornalisti sono stati minacciati e aggrediti, auto sono state incendiate varie volte e hanno cercato di attentare persino contro l’allora vicepresidente del consiglio regionale Domenico Pettinari.
Piervincenzi è stato intervistato, in occasione del premio dedicato ad Antonio Russo, dal quotidiano Il Centro. Lo stesso quotidiano che ha visto, in pochi mesi, due suoi giornalisti minacciati e aggrediti. È accaduto due volte a Gianluca Lettieri, tra i più grandi segugi giornalistici di questa regione, ed è capitato in provincia dell’aquila nei pressi di un’aula di tribunale. Tante sono le intimidazioni piccole e grandi, le aggressioni, le minacce velate ed esplicite in una regione dove il clima nei confronti della stampa libera è pessimo. Mentre moltissimi sopravviviamo tra mille difficoltà, in un panorama editoriale sempre più povero, impaurito, servile, asfittico.
Lo viviamo anche sulla nostra pelle, è quanto viviamo in prima persona noi stessi da cinque anni. Senza padrini e padroni, senza verità confezionate e nessuno che possa dettarci linee editoriali o dirci cosa scrivere o non scrivere. Tra boicottaggi locali e nazionali, difficoltà economiche sempre maggiori e ostilità politiche, associative, corporative da squallide consorterie e guappi di cartone che sono in un Paese sempre più amalgamato o omologato possono avere bricioli di credibilità.
Lo stesso giorno dell’attentato a Ranucci e alla sua famiglia per alcune ore siamo stati off line. È capitato nei mesi scorsi, per motivi economici, ed è capitato ancora. Dopo il precedente dell’aprile 2021, per la seconda volta è avvenuto per colpa di un attacco hacker. Subito dal sito di Rete L’Abuso, l’unica associazione di sopravvissuti alla pedofilia clericale in Europa, e poi estesosi. Se da un anno abbiamo una piattaforma web migliore, se abbiamo risolto molti problemi tecnici che ci trascinavamo dall’attacco hacker del 2021 è grazie a Francesco Zanardi, fondatore e presidente di Rete L’Abuso e nostro compagno di viaggio (di cui siamo orgogliosi e fieri) nel denunciare e documentare questo Paese orrendamente sporco.
Siamo stati off line alcune ore, per l’ennesima volta, ma un giorno potremmo esserlo per sempre, definitivamente. Con la gioia di mafiosi, colletti bianchi, politicanti da strapazzo, affaristi senza scrupoli, criminali di ogni sorta che denunciamo e i cui misfatti e crimini denunciamo sin dal nostro primo giorno. Ranucci ha indicato alcune piste, definite le uniche serie da Il Fatto Quotidiano in prima pagina sabato, sugli attentatori. Lasciamo agli inquirenti indagare e accertare le responsabilità. Ma sentir parlare di ultras e calcio sporco, di ‘ndrangheta e sue presenze nell’economia più o meno legale, della piazza di spaccio in mano a clan albanesi non lontana da casa Ranucci ci rimanda a molte nostre inchieste. Sulle mafie estere, albanesi ma non solo, sulle piazze di spaccio (e sull’Abruzzo la nostra attenzione è costante) e su tanto altro. Ma accanto a tutti loro si schiererebbero, il giorno che il black out non dovesse essere solo temporaneo, anche i tanti pavidi, gli ayatollah, le coscienze sporche con scheletri infiniti nell’armadio, i tanti che ogni giorno girano la testa dall’altra parte per interesse e vigliaccheria. E l’immensa schiera di coloro che pensano che i giornalisti campano d’aria, che se ne fregano di come viviamo, sopravviviamo, bravi solo a giudicare e puntare il dito. Ma il giornalismo non è gratis, non viviamo d’aria e i costi sono sempre maggiori. In questi cinque anni, in quest’avventura editoriale indipendente e corsara, non abbiamo mai avuto sponsor e finanziamenti, nessun appoggio economico. Noi, come accade ogni giorno a centinaia se non migliaia, di giornalisti che – in alcuni casi – non hanno mai avuto entrate economiche ma solo uscite. E così tante avventure editoriali muoiono, tanti colleghi sono costretti ad abbandonare e rinunciare a svolgere il loro impegno giornalistico. Perché ciò non accada è necessaria la cittadinanza attiva, lettori che non siano solo passivi fruitori. Noi resistiamo ma, per continuare a farlo, senza padrini e padroni, senza ayatollah e censori, l’avventura deve essere collettiva e anche noi abbiamo necessità del supporto di chi crede ancora nel giornalismo e vuol continuare a vedere illuminato e raccontato quel che tanti non vorrebbero.





