C’è qualcosa di profondamente inquietante nel dover discutere della credibilità di chi guida la Commissione parlamentare antimafia. È come chiedersi se un giudice creda davvero nella legge o se un medico curi solo per prestigio. Eppure, nel caso di Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Antimafia dal maggio 2023, la domanda è diventata inevitabile.
La sua nomina è arrivata tra gli applausi della maggioranza e il silenzio – o l’abbandono dell’aula – delle opposizioni. Già allora, molti avevano avvertito una stonatura: una presidenza tanto delicata, tanto simbolica, affidata ad una figura giovane, cresciuta politicamente nel solco di Giorgia Meloni ma con ombre e legami controversi che meritano di essere discussi, non nascosti.
Al centro delle polemiche c’è il rapporto con Luigi Ciavardini, ex terrorista dei NAR, condannato per la strage di Bologna. Colosimo ha spiegato che si trattava solo di contatti legati ad attività di reinserimento detenuti. Ma la questione non è soltanto giudiziaria — è simbolica.
Può la presidente della Commissione Antimafia permettersi di essere associata, anche solo per immagine, a chi ha incarnato una stagione di violenza eversiva contro lo Stato?
A ciò si aggiunge un altro dettaglio che, per una figura istituzionale, non è secondario: lo zio di Chiara Colosimo, l’avvocato Paolo Colosimo, è stato condannato per rapporti con la ’ndrangheta e radiato dall’Ordine. Nessuna colpa di famiglia, certo. Ma quando si rappresenta l’istituzione simbolo della legalità, la percezione conta. E in politica la percezione, spesso, è sostanza.
La Commissione Antimafia dovrebbe essere il tempio della trasparenza, il luogo dove la politica si spoglia dei suoi interessi per ascoltare magistrati, giornalisti, investigatori, e costruire strategie vere di contrasto alle mafie.
Eppure, negli ultimi anni, l’antimafia istituzionale ha perso quella tensione etica che la rendeva credibile. È diventata, troppo spesso, un palco da cui recitare la legalità più che praticarla.
Non è solo una questione di nomi o di partiti. È il sintomo di una malattia più profonda: quando la lotta alle mafie diventa strumento di potere, perde la sua anima.
Ci si riempie la bocca di Falcone e Borsellino, li si cita nei discorsi ufficiali ma poi si dimentica che il loro coraggio nasceva dal dissenso, non dal consenso. Erano scomodi, non utili.
Chi detiene una carica come quella di presidente della Commissione Antimafia non può limitarsi a “non essere colpevole”: deve essere ineccepibile.
Perché l’antimafia non è una delega politica, è una responsabilità morale.
E allora, la domanda che dovremmo porci non è tanto se Chiara Colosimo abbia fatto o meno qualcosa di sbagliato ma se rappresenti davvero lo spirito di ciò che dovrebbe incarnare: la distanza netta, visibile, profonda tra Stato e qualsiasi forma di ambiguità.
Quando un’istituzione così importante si affida a figure percepite come “di parte”, il rischio è che la lotta alle mafie venga piegata a logiche di partito, a interessi, a consenso. Che la Commissione smetta di essere un faro e diventi un riflettore: acceso solo dove conviene guardare.
Colosimo rivendica un’attività intensa: decine di audizioni, centinaia di atti acquisiti, dodici comitati istituiti. È vero. Ma i numeri, da soli, non bastano.
Il punto non è quanto si lavora, ma come e per chi.
L’antimafia non è burocrazia. È memoria, giustizia, rigore. È scegliere ogni giorno da che parte stare, anche quando costa caro.
E questo Paese, che di antimafia da vetrina ne ha già vista troppa, non ha bisogno di altre bandiere. Ha bisogno di verità.
Le critiche alla presidenza Colosimo non nascono dal pregiudizio ideologico ma da una domanda di coerenza.
Può una figura così vicina alla destra post-missina incarnare il volto più credibile dell’antimafia parlamentare?
Può farlo senza tradire la memoria di chi è morto per difendere lo Stato?
L’Italia ha un vizio antico: trasformare le parole “legalità” e “antimafia” in etichette da campagna elettorale. Ogni governo le usa, le svuota, le piega, le rimette in scena. Ma la vera lotta alla criminalità organizzata è fatta di scelte impopolari, di silenzi che bruciano, di indagini che non si fermano davanti ai palazzi.
Chiara Colosimo ha dichiarato che “non c’è niente di peggio di un politico indagato per mafia”. È una frase giusta ma rischia di suonare come un mantra vuoto se non accompagnata da gesti coerenti.
Perché la verità è semplice: l’antimafia non ha bisogno di proclami ma di credibilità.
E la credibilità non si compra con una carica, si conquista con l’esempio.
Il bivio, oggi, è questo: vogliamo un’antimafia che serva lo Stato o un’antimafia che serva il potere?
La differenza, in fondo, è tutta lì. E da quella differenza dipende se il Paese ricorderà l’Antimafia come un presidio di giustizia… o come l’ennesimo simbolo svuotato, utile solo a chi lo governa.
Chiara Colosimo deve dimettersi: la Commissione Antimafia è diventata un guscio vuoto





