È stata istituita, con nessun voto contrario alla Camera dei Deputati, una giornata nazionale dedicata alla memoria dei giornalisti uccisi.
Ricordare i giornalisti uccisi per aver nobilitato, e praticato, quel che non sarebbe solo una professione ma molto di più (anche se spesso, troppo spesso, anche alle nostre latitudini, c’è chi lo dimentica sfregiandolo e infangandolo) è intento nobile e condivisibile. La memoria è importante, senza memoria non c’è storia (come scrisse Pasolini) e senza storia non esistiamo, non abbiamo bussola nella vita. E quelle storie, quelle vite ci parlano e ci indicano bussole ben precise.
Apprezzabile, condivisibile, un segnale forte ed importante quindi una giornata dedicata a chi ha sacrificato la vita. Ma non possiamo fermarci a questo. La prima considerazione è fin troppo lineare e forse persino banale: se sono stati uccisi qualcuno li ha uccisi e le loro vite sono state spezzate per impedir loro di continuare a documentare, indagare, fare inchieste scomode a chi li ha uccisi. Non sono morti per essere imbalsamati, per essere ricordati un giorno ma per coraggio, indipendenza, sete di verità, per aver raccontato e denunciato quel che altri non hanno mai raccontato e denunciato. Se si denuncia e racconta in centinaia, migliaia (almeno) tappare la bocca, intimidire, uccidere, diventa molto più difficile se non impossibile. Allora perché, al posto di una sola giornata di commemorazione, non iniziare a far conoscere, rilanciare, proseguire, quelle inchieste? Sarebbe la memoria più giusta e l’omaggio più vero e sincero. Non parlateci solo dei nomi di chi è stato ucciso, parlateci di chi li ha uccisi, dei loro sporchi affari, degli intrighi che si nascondono dietro, del Paese sporco, orrendamente sporco, che animano. Per ogni giornalista ucciso fioriscano centinaia, migliaia di occhi e bocche che proseguano sul loro cammino.
È stata scelta la data del 3 maggio, la giornata internazionale per la libertà di stampa. Quella libertà in questo Paese quotidianamente negata, nei fatti. L’Italia è un Paese in cui neanche si parla più, dopo anni di sterile dibattito e di proposte di legge finite in qualche polveroso cassetto, di una legge contro le querele temerarie. Spada di Damocle che ha segnato, distrutto, vite e impegni. Così come, per fare un altro esempio (ma ne potrei fare altro, c’è chi ha esultato alla “censura” di un’inchiesta per il Tg1 di Giovanna Cucé), in un Paese “normale” si sarebbe scatenata una mobilitazione indignata sociale, morale, civile per quanto accaduto ad uno dei migliori giornalisti, d’inchiesta, di approfondimento, di studio, indipendente, di questo Paese, attaccato, insultato, messo alla gogna, censurato e bannato su facebook: Damiano Aliprandi. I social network sono oggi luoghi di fatto pubblici, per quanto continuano ad essere gestite da multinazionali private, e tra i maggiori strumenti di “lavoro” di un giornalista. Bannare Aliprandi, impedire la sua presenza social, è una forte limitazione alla sua libertà e al suo impegno di giornalista. È una censura alla sua voce, alla sua libertà di espressione, ai suoi studi, approfondimenti, ricerche e prove del suo lavoro. Può essere attaccato, insultato, infangato ma non può rispondere, la sua versione dei fatti silenziata impedendone la lettura. Damiano Aliprandi è oggi su X e ha dovuto aprire un nuovo profilo facebook che il 22 luglio, lo ha reso noto su X lo stesso giornalista, ha avuto analoga sorte del precedente. A chi ha dato fastidio? Chi ha mezzi così potenti da riuscire ad ottenere risultati del genere in pochissimo tempo? Cosa ha dato fastidio tra le ultime pubblicazioni?
Colpiscono le vite uccise da altri ma ci sono vite volontariamente interrotte. Alessandro Bozzo, Pier Paolo Faggiano (a 40 e 41 anni) ci raccontano tanto di ricatti, precarietà, piccole e grandi prepotenze e tanto altro che pesano, pesano tantissimo, dei tanti che ogni anno abbandonano o rischiano di farlo (o nella meno peggio delle ipotesi si ritrovano boicottati, isolati, delegittimati, sotto la soglia della povertà, a sopravvivere ad una quotidianità infernale se non peggio) e possono non farcela, arrivano a non farcela e a togliersi la vita. Se non fosse stato assassinato dai sicari del clan Gionta cosa sarebbe stato di Giancarlo Siani, precario e “abusivo” e sempre nel mirino? E quanti Alessandro e Pier Paolo tra noi rischiano ogni giorno, anche adesso, di andarsene?
«Giancarlo è stato ucciso perché fu lasciato solo da una categoria che lo aveva abbandonato. Negli anni, subito dopo la sua uccisione, Il Mattino si era dimenticato anche di ricordare gli anniversari. Erano gli anni in cui nel principale quotidiano di Napoli si entrava solo con le raccomandazioni. Giancarlo invece, era un precario, abusivo, ed è stato ucciso perché voleva essere la normalità: raccontare i fatti e metterli insieme».
(Pietro Perone, giornalista Il Mattino, fonte, sito web Ordine nazionale dei Giornalisti)
Sfibrato da una vita da precario, si suicida pubblicista 41enne. Il precariato a 41 anno può diventare un tarlo che ti consuma lentamente la voglia di vivere. Pier Paolo Faggiano, giornalista pubblicista e corrispondente da Ceglie Messapica de La Gazzetta del Mezzogiorno da molti anni, aveva un animo troppo sensibile per dominare lo stress di questa condizione, e ieri sera si è tolo la vita impiccandosi
(BrindisiReport, 22 giugno 2011)





