Un successo di popolo
Lo sciopero generale contro il genocidio a Gaza, promosso dall’USB, è stato un successo imponente: centinaia di migliaia di persone si sono riversate nelle strade italiane, dando voce a una protesta trasversale, libera e indipendente dai partiti. L’energia che si respirava era quella di un consenso diffuso, che ha dimostrato quanto sia forte il bisogno di pace, giustizia e dignità umana.
Un grande assente, tuttavia, ha fatto discutere: la CGIL, il principale sindacato italiano. La sua scelta di non aderire allo sciopero ha sollevato domande inevitabili. Il legame storico con il Partito Democratico – un partito sempre più distante da posizioni realmente di sinistra e attraversato da correnti filo-israeliane – sembra aver condizionato la linea sindacale.
Il PD, ambiguo sulla guerra in Ucraina e incerto di fronte alla strage di Gaza, ha trasmesso questa stessa ambivalenza alla CGIL, frenando ogni scelta netta. In passato Maurizio Landini aveva tentato, con il progetto della Coalizione Sociale, di costruire un’alternativa istituzionale. Un progetto bloccato dall’allora segretaria Susanna Camusso e mai più rilanciato, segno di equilibri interni che hanno finito per frenare il cambiamento.
Anche l’USB, pur protagonista di questo sciopero, si trova di fronte a un limite: l’assenza di riferimenti istituzionali credibili. Se questo aspetto non verrà affrontato, il rischio è quello di rimanere confinati in un ruolo di contestazione senza reale capacità di incidere sulle decisioni politiche. Nel frattempo, l’assenza di un sindacato forte e autonomo rischia di trasformare la CGIL in un semplice padronato, piegato agli equilibri di palazzo.
Lo sciopero non è stato soltanto una manifestazione contro la guerra, ma anche una domanda collettiva di cambiamento. Non possiamo più vivere in una società dominata da un pensiero unico che produce solo distinguo e retorica. È necessario aprire un dibattito serio sui cicli economici, mettendo al centro il sistema Terra e non la crescita illimitata.
La produzione e il consumo non possono più essere pensati solo in termini di mercato e profitto, ma devono legarsi alla sostenibilità e al mantenimento dell’equilibrio ecologico. Serve ridefinire il concetto di beni comuni, liberarli dalla logica della mercificazione e considerarli come diritti universali.
Allontanarsi dall’idea di guerra che ci viene imposta significa guardare avanti: immaginare comunità fondate su solidarietà, cooperazione, giustizia sociale. Non un ritorno a vecchie ideologie o derive autoritarie, ma la costruzione di un futuro nuovo, libero dai fantasmi di fascismo e nazismo, e capace di dare risposte concrete ai bisogni delle persone e del pianeta.