Ci sono parole che suonano bene solo fino a quando non provi a guardarle da vicino.
“Piano di pace”. Due parole pulite, rassicuranti, quasi salvifiche. Poi leggi chi le pronuncia, come le pronuncia e cosa nascondono dietro e capisci che non hanno nulla di quello che promettono. Il piano di pace di Donald Trump per la Palestina è esattamente questo: un’illusione patinata, una vetrina costruita per i titoli dei giornali, ma con fondamenta che sanno di colonie e non di libertà.
Trump lo presenta come un progetto storico, un gesto da statista, quasi una redenzione personale. Ma la verità è più scomoda: è l’ennesima mossa di un uomo ossessionato dal lasciare un segno, dal farsi incoronare pacificatore globale, dal rincorrere quel Nobel per la Pace che non otterrà mai perché la pace non si compra, non si impone e soprattutto non si costruisce con la propaganda.
Dietro ogni sua parola, dietro ogni finta promessa di “prosperità”, si nasconde un meccanismo di potere.
Perché se davvero fosse pace, allora dovrebbe partire dal riconoscere l’ingiustizia, dal ridare voce e territorio a chi lo ha perso. Ma qui succede il contrario: si toglie ai palestinesi anche l’ultima cosa che gli resta — la possibilità di decidere da soli del proprio futuro.
Il cuore del piano è tutto lì: nel suo grande paradosso. Parlano di “pace” ma la pace che immaginano è scritta da chi occupa e non da chi subisce.
Nessun popolo può essere pacificato dall’esterno, con un manuale d’istruzioni o con una mappa ridisegnata da Washington. Eppure il piano di Trump, con il sostegno silenzioso di Israele e di alcuni governi occidentali, fa proprio questo: decide chi comanda, chi ricostruisce, chi controlla, chi sorveglia. Ai palestinesi resta la vetrina, il ruolo di comparsa in una storia che li riguarda fino all’osso.
Hanno perfino inventato un nome per mascherare la realtà: “Board of Peace”, un comitato internazionale che dovrebbe gestire Gaza e “favorire la transizione”. Ma chi ci siede dentro? Politici, manager, strateghi, consulenti occidentali. Tra questi, Tony Blair — l’uomo che nel mondo arabo ricorda più un funzionario d’occupazione che un mediatore.
Blair, ex premier britannico, già inviato speciale del Quartetto, è il simbolo perfetto di una mentalità coloniale che non muore mai: quella secondo cui l’Occidente deve “amministrare” i popoli instabili, insegnargli la democrazia, rimetterli in riga.
È lo stesso sguardo che l’Europa e gli Stati Uniti hanno usato per secoli: “noi vi diremo come vivere, come ricostruire, come convivere”. Ma la Palestina non è un laboratorio politico, non è un esperimento sociale e nemmeno un affare immobiliare. È una terra ferita che continua a chiedere dignità, non carità.
Questo piano, come quelli che lo hanno preceduto, ha un difetto genetico: nasce dal presupposto sbagliato.
Non parte dal diritto, ma dal controllo. Non parte dal dolore, ma dal calcolo.
“Vi aiuteremo a ricostruire ma secondo le nostre regole.”
“Vi daremo fondi ma dovrete accettare la nostra sicurezza.”
“Vi lasceremo vivere ma sotto la nostra supervisione.”
È così che si riscrive il colonialismo del XXI secolo: non con carri armati e occupazioni dirette, ma con consigli di amministrazione, protocolli di sicurezza, organismi tecnici e missioni “umanitarie” gestite da chi non deve subirne le conseguenze. È una colonizzazione dolce, invisibile, diplomatica. Ma sempre colonizzazione resta.
E allora viene da chiedersi: chi guadagna da tutto questo?
Sicuramente non il popolo palestinese, che di piani ne ha visti tanti e di promesse ancora di più. Sicuramente non la pace, che non nasce quando si impone silenzio, ma quando si costruisce giustizia.
A guadagnarci, invece, sono gli equilibri geopolitici, i consorzi economici, gli alleati che devono essere tenuti buoni, e naturalmente l’immagine di chi, da Washington a Londra, vuole passare alla storia come “l’uomo della soluzione”.
Trump non vuole la pace. Vuole la medaglia.
Vuole poter dire al mondo: “Io ci sono riuscito dove tutti hanno fallito”.
Ma la pace non è un trofeo. Non è una strategia di marketing politico. È un percorso di riconoscimento, di riparazione, di responsabilità. E Trump, invece, di responsabilità non ne ha mai volute.
Da imprenditore ha sempre venduto illusioni con il sorriso sulle labbra: palazzi mai finiti, università fasulle, campagne elettorali trasformate in reality. E ora fa lo stesso con la Palestina.
Il suo piano è un grande spot elettorale per se stesso, un palcoscenico su cui recitare la parte del salvatore del Medio Oriente.
Ma chi salva davvero non si mette in posa.
Nel frattempo, mentre le telecamere inquadrano i sorrisi diplomatici, Gaza continua a morire sotto le macerie.
E c’è qualcosa di profondamente ipocrita in questa contraddizione: firmare piani di pace con una mano e con l’altra continuare a garantire forniture militari e appoggio politico a chi quella pace la distrugge ogni giorno.
C’è un concetto che molti in Occidente non riescono a capire — o fingono di non capire: la Palestina non deve essere gestita, ma liberata.
Non ha bisogno di un manager, ma di una voce.
Non di un piano tecnico, ma di un riconoscimento politico.
Finché Israele continuerà ad occupare, finché non verrà riconosciuto il diritto pieno dei palestinesi a esistere, a muoversi, a tornare nelle loro case, a scegliere i propri rappresentanti, ogni piano sarà solo una farsa.
Si può cambiare il linguaggio, ma non la sostanza: chiamalo come vuoi — “transizione”, “stabilità”, “modernizzazione” — resta un modo per mantenere lo status quo e per farlo sembrare accettabile.
L’idea che Blair o qualsiasi altra figura occidentale possa “preparare” i palestinesi all’autogoverno è offensiva.
I palestinesi non devono imparare a essere liberi. Devono solo essere lasciati liberi.
Trump e chi lo circonda parlano di investimenti miliardari, di infrastrutture, di progetti energetici, di corridoi commerciali. Ma osservando bene, è tutto pensato per chi controlla, non per chi abita.
È come se costruissero un palazzo sulla sabbia, e poi dicessero agli sfollati: “Guardate, vi abbiamo dato un futuro”.
Un futuro che non hanno scelto, su una terra che non possiedono, sotto un governo che non rappresenta la loro volontà.
È una truffa, ma di quelle eleganti, che si nascondono dietro le parole nobili.
Perché la vera forza del colonialismo moderno è proprio questa: non ha più bisogno di occupare fisicamente. Gli basta convincerti che lo sta facendo per il tuo bene.
Alla fine, tutto si riduce a una verità semplice, quasi brutale: la Palestina deve essere dei palestinesi.
Non degli americani, non di Israele, non di Blair, non di chi vuole un Nobel.
Israele deve ritirarsi, punto.
Non per vendetta, ma per giustizia.
Perché non si può costruire una pace credibile su una terra rubata.
Ogni piano che non parta da qui è falso.
Ogni discorso che non nomini le parole “occupazione” e “diritti” è solo fumo negli occhi.
E ogni leader che usa la pace come passerella politica non merita né applausi né premi.
C’è chi chiama questo “realismo politico”.
Io lo chiamo con il suo nome: ipocrisia.
Perché parlare di pace senza parlare di libertà è come parlare di sole senza luce.
E il piano di Trump — con i suoi sorrisi diplomatici, le sue mappe disegnate in studio, e la sua voglia disperata di passare alla storia — non è altro che un’ombra lunga sul futuro di un popolo che continua a essere trattato come un problema, mai come un diritto.
Il mondo può voltarsi dall’altra parte, i leader possono stringersi le mani davanti alle telecamere, e Blair può firmare nuovi accordi e nuove consulenze.
Ma la storia, quella vera, non si scrive nei palazzi. Si scrive nelle strade, nei campi profughi, nei sogni dei bambini che ancora credono che un giorno avranno una casa, una bandiera, una pace vera.
E finché quella pace non sarà anche loro — solo loro — nessun piano, nessuna firma, nessun premio potrà chiamarsi davvero “pace”.