Un gruppo di cacciatori viene aggredito in Calabria, sulla strada provinciale (Rosarno – Laureana di Borrello), in pieno giorno, da uomini incappucciati e armati con kalashnikov. Una scena da guerra. Eppure, nel dibattito politico, quella parola: ‘ndrangheta (la più pesante, la più necessaria) non viene pronunciata.
Ogni volta che la bellissima Calabria torna sulle prime pagine per un episodio di violenza, c’è chi parla di “sicurezza”, chi di “solidarietà”, chi di “isolati balordi”.
Ma quasi nessuno ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.
Come si può pensare di sconfiggere la ’ndrangheta, se la politica continua a comportarsi come se non esistesse?
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La retorica della “Calabria sicura”
In una recente intervista, il vice coordinatore di Fratelli d’Italia a Reggio Calabria, Stefano Princi, ha espresso solidarietà alle vittime dell’aggressione armata, chiedendo “più controlli sul territorio” e una Calabria “sicura e rispettosa delle regole”. Fin qui, nulla da eccepire.
Ma quando l’intervista tocca il cuore del problema, la criminalità organizzata, arriva il muro di gomma.
Nessuna parola sulle ’ndrine, nessun riferimento ai clan, nessun accenno alle infiltrazioni nella politica calabrese. Solo un generico: “Non posso dire se c’entra la ’ndrangheta”. È questo il punto. In Calabria, spesso, la vera emergenza non è solo la criminalità organizzata, ma la paura di nominarla.
La ’ndrangheta è la mafia più potente d’Europa. Controlla traffici, appalti, cocaina, politica, voti e consenso sociale. Eppure, la parola ’ndrangheta continua a essere trattata come un tabù, un termine da evitare per non “infangare l’immagine della regione”.
Ma l’immagine non si infanga quando si nomina il male: si infanga quando lo si nega. Quando la politica, di destra, di sinistra o di centro, parla di “isolati episodi”, contribuisce a quel sistema di omertà istituzionale che la criminalità ama più della paura.
Perché una mafia invisibile è una mafia invincibile.
Il paradosso calabrese: elogiare la legalità, tacere sulla mafia
In ogni discorso ufficiale si parla di “legalità”. La parola viene brandita come un vessillo. Non basta dire “legalità” se non si dice mai ’ndrangheta.
E mentre le parole si fanno leggere, le armi pesanti risuonano, i clan riciclano denaro nell’economia pulita, e le inchieste restano le uniche a squarciare il silenzio.
Chi davvero vuole combattere la ’ndrangheta deve nominarla. Deve schifarla e combatterla. Per distruggerla, non per combatterla con i falsi spot.
Le parole sono importanti e vanno usate. Soprattutto con questi personaggi indegni.
L’uomo politico (che parolone se si guarda il livello della politica locale e nazionale) deve dire i nomi dei clan, delle connivenze, dei colletti bianchi. Questi ultimi, come la Massoneria deviata, non vengono mai presi in considerazione. Forse, fanno più paura dei mafiosi.
La politica (altro parolone in questo sconfortante deserto) deve riconoscere che in Calabria (come in Italia, in Europa e nel Mondo) la schifosa ’ndrangheta non è folklore criminale, ma sistema economico e politico parallelo. Senza questa consapevolezza, la lotta alla mafia resta una favola da campagna elettorale.
E chi tace, anche solo per opportunismo o paura, diventa complice.
Il giornalismo come resistenza
In questo vuoto di parole e responsabilità, restano i giornalisti d’inchiesta, i testimoni di giustizia, i magistrati onesti, gli insegnanti e i cittadini coraggiosi. Sono loro a tenere viva la speranza che la Calabria possa un giorno liberarsi davvero. Non dal male, ma dal silenzio che lo protegge.
Finché la politica non troverà il coraggio di pronunciare quella parola (’ndrangheta) la Calabria continuerà a essere terra ferita, sorvegliata e incompresa.
Perché il primo passo per vincere una guerra è riconoscere il nemico. E qui, troppo spesso, il nemico è ancora innominato.
Il silenzio nazionale: una rimozione collettiva
Non è solo la Calabria a tacere. Oggi anche la politica nazionale ha smesso di nominare le mafie. Nei discorsi ufficiali non si sentono più parole come ’ndrangheta, Cosa Nostra, camorra, mafie. Sparite dai comizi, assenti dalle agende politiche.
Mentre si evitano i nomi, le mafie cambiano pelle, si infiltrano nell’economia, nei partiti, nei finanziamenti pubblici.
Hanno imparato a non sparare, perché il silenzio dei palazzi vale più di cento proiettili.






