C’è un filo sottile – ma ormai sempre più visibile – che unisce il potere locale, la politica regionale e il sistema di interessi che, in certe zone del Paese, continua a muovere le scelte e le carriere.
L’arresto di Veronica Biondo, vicesindaca di Santa Maria a Vico (Caserta) e candidata alle prossime elezioni regionali in Campania con Forza Italia, è molto più di una notizia di cronaca. È una lente che ci obbliga a guardare da vicino il modo in cui la politica costruisce consenso, sceglie i propri rappresentanti e, talvolta, chiude gli occhi davanti a certe frequentazioni.
L’inchiesta condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli e dalla Guardia di Finanza di Caserta ha portato alla luce un sistema che, secondo le ipotesi accusatorie, avrebbe legato la politica locale a un clan camorristico – quello dei Massaro – capace di garantire pacchetti di voti in cambio di appalti, assunzioni e favori.
Un copione che, purtroppo, conosciamo fin troppo bene: promesse, liste civiche “amiche”, cantieri pilotati e posti di lavoro come merce di scambio. Tutto in un contesto in cui la parola “consenso” non è più sinonimo di fiducia, ma di controllo.
A rendere la vicenda ancora più significativa è la rete di rapporti politici che ne emerge. La candidatura di Biondo, infatti, era stata fortemente sponsorizzata dal coordinatore regionale di Forza Italia, Fulvio Martusciello, e approvata a livello nazionale nell’ambito della strategia elettorale definita anche da Maurizio Gasparri, figura storica del partito.
Una candidatura, dunque, non marginale, ma parte di un disegno politico più ampio: conquistare consenso nella provincia di Caserta, dove Forza Italia puntava a un risultato record.
Poi l’arresto, le accuse di voto di scambio politico-mafioso, induzione indebita e favoreggiamento personale. E la decisione, inevitabile ma tardiva, di ritirare la candidatura.
Il partito si è affrettato a dichiarare di “prendere le distanze”, ma resta la domanda cruciale: com’è possibile che una figura sotto indagine per rapporti così gravi sia stata proposta come volto istituzionale del centrodestra campano?
La risposta, probabilmente, è nel cortocircuito che da anni attraversa la politica italiana: l’urgenza di vincere a ogni costo, anche a scapito del controllo e della trasparenza.
In un territorio fragile come il casertano, dove la criminalità organizzata non è un fenomeno marginale ma un elemento strutturale della vita economica e amministrativa, la selezione delle candidature dovrebbe essere non solo accurata, ma rigidissima.
Eppure, ancora una volta, non lo è stata.
La Guardia di Finanza ha documentato conversazioni e scambi che delineano un quadro inquietante. Gli uomini del clan, scrive l’accusa, “erano in grado di conoscere in anticipo l’esito delle elezioni comunali, indicando ai candidati quali incarichi avrebbero ottenuto dopo il voto”.
Un sistema in cui la democrazia diventa pura apparenza e il voto si trasforma in merce di scambio.
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire. Ma ogni volta che questo accade, un pezzo di fiducia collettiva si sgretola.
Ed è proprio questa la parte più dolorosa della storia: il tradimento della fiducia.
Quando un cittadino vota, immagina di scegliere liberamente chi lo rappresenterà. Quando scopre che dietro a quel voto si muovono accordi, minacce e patti sottobanco, la fiducia nella politica – già fragile – evapora del tutto.
E allora ci si chiede: chi sceglie davvero i nostri rappresentanti? I partiti o i clan? Gli elettori o i pacchetti di voti preconfezionati?
Il caso di Santa Maria a Vico non è un’eccezione: è un campanello d’allarme che suona forte in vista delle regionali in Campania.
In una terra dove la criminalità organizzata è ancora capace di orientare i flussi elettorali e condizionare gli appalti, la politica deve interrogarsi sul proprio ruolo.
Perché non si può più parlare solo di “mele marce”: qui c’è un sistema che si alimenta di connivenze, silenzi e convenienze reciproche.
Un sistema che sopravvive grazie a quella zona grigia dove la legalità si piega al consenso e il potere diventa fine a se stesso.
Il caso Biondo mette a nudo anche la responsabilità dei vertici di partito.
Non basta dire “non ne sapevamo nulla”: la trasparenza non è una formula di comodo, ma un dovere politico e morale.
Quando si accetta di candidare persone su segnalazione locale, senza verificare a fondo il contesto in cui operano, si abdica al ruolo di guida e si diventa complici, anche solo per omissione.
E il problema, a quel punto, non è solo giudiziario: è culturale e democratico.
Perché la verità è che in certe zone d’Italia la politica non ha ancora imparato a distinguersi davvero dal potere.
Dove il potere è rete di favori, intermediazioni, piccoli e grandi scambi di interessi, la politica finisce per assomigliare troppo a ciò che dovrebbe combattere.
E quando la politica smette di essere servizio e diventa privilegio, la democrazia si indebolisce.
Il messaggio che arriva ai cittadini è devastante: che tutto sia già deciso, che la legalità sia un’illusione, che la mafia – in forme moderne e meno appariscenti – continui a essere un interlocutore politico.
Ma rassegnarsi a questa idea sarebbe il più grande errore.
Ogni volta che la cronaca ci mostra un intreccio tra amministrazione, potere e criminalità, non dobbiamo limitarci all’indignazione momentanea.
Serve una reazione civile, una presa di coscienza collettiva.
Perché non c’è lotta alla mafia senza una politica credibile, e non c’è politica credibile senza trasparenza.
È facile condannare dopo. Più difficile è prevenire, controllare, scegliere con criterio.
Eppure è l’unica strada possibile se vogliamo restituire dignità alle istituzioni.
Le prossime regionali in Campania saranno un banco di prova decisivo: non solo per i partiti, ma per i cittadini.
Saper riconoscere i volti, leggere i programmi, informarsi, pretendere chiarezza: sono gesti semplici, ma rivoluzionari, in un Paese che troppo spesso dimentica di essere sovrano.
Il caso della vicesindaca di Santa Maria a Vico non è una parentesi: è uno specchio.
Ci mostra quanto sia urgente un cambio di passo.
La politica deve tornare ad appartenere ai cittadini, non ai sistemi di potere.
Solo allora potremo dire di vivere davvero in una democrazia, e non in una sua copia sbiadita.





