C’è un rumore che torna a farsi sentire nelle domeniche italiane: quello delle inchieste di Report. Dopo settimane di silenzio forzato, di paura e solidarietà, Sigfrido Ranucci torna su Rai Tre. Torna con le ferite ancora aperte – quelle lasciate da una bomba piazzata sotto la sua auto, davanti casa, un messaggio brutale che sa di intimidazione. Torna con la voce ferma di chi non si piega, ma anche con la consapevolezza di muoversi in un Paese dove raccontare la verità, spesso, è diventato un mestiere pericoloso.
Eppure, è proprio questo il momento in cui Report deve esserci. Perché mentre si tenta di spaventare chi indaga, il sistema di potere italiano continua a mostrare la sua forma più persistente: quella dell’autoconservazione.
Il ritorno di Report non è solo un evento televisivo: è un test di resistenza democratica.
Ranucci aveva annunciato che avrebbe aperto la stagione con temi scomodi: la riforma del premierato, ribattezzata “Project 2025”, e una nuova inchiesta sul mondo del cinema, tra fondi pubblici e nomine opache. E proprio mentre si accendevano i riflettori sulle prime anticipazioni, un ordigno faceva tremare il silenzio della sua notte.
Non è un caso, né un simbolo casuale. È la dimostrazione che in Italia, ogni volta che qualcuno decide di guardare dove non si deve, qualcuno prova a spegnere la luce.
C’è un filo sottile che lega i due mondi su cui Report ha puntato la lente: la politica e la cultura.
Due universi apparentemente lontani, ma che in Italia finiscono per somigliarsi più di quanto si creda. Entrambi si reggono su reti di nomine, favori, conoscenze, appartenenze. Entrambi vivono di equilibri che poco hanno a che fare con la meritocrazia e molto con la fedeltà.
La riforma del premierato, con il suo obiettivo di rafforzare i poteri del capo del governo e concentrare la leadership politica in una figura eletta direttamente, non è soltanto una questione istituzionale: è anche una prova di forza simbolica.
Dietro la promessa di “stabilità” si intravede una ridefinizione degli equilibri tra potere politico, media e cultura. Perché chi controlla la narrazione, in un Paese come l’Italia, finisce spesso per controllare anche la percezione della democrazia.
E lo stesso accade nel mondo del cinema, che pure dovrebbe essere il regno della libertà creativa.
Negli ultimi mesi il settore culturale italiano è diventato una vetrina – e al tempo stesso uno specchio – di come la politica distribuisce il potere.
La nomina di Manuela Cacciamani a vertice di Cinecittà, e quella di Stefania Rocca in ruoli di rappresentanza istituzionale nel comparto audiovisivo, hanno riacceso il dibattito sull’intreccio tra politica e cultura.
Non per le competenze – entrambe hanno esperienza nel campo – ma per i legami familiari e politici che emergono sullo sfondo: rapporti di conoscenza diretta o indiretta con Arianna Meloni, sorella della premier, figura centrale nel partito e negli equilibri di potere interni.
Cacciamani, già fondatrice di una società di produzione e nominata amministratrice di Cinecittà, è finita al centro di polemiche e inchieste sul tax credit cinematografico: fondi pubblici concessi a produzioni “amiche”, o comunque vicine a certe aree di influenza. Una storia che ricorda altri tempi, ma che oggi assume contorni più sofisticati, meno grezzi, e proprio per questo più pericolosi.
Stefania Rocca, attrice e manager, si inserisce nella stessa costellazione: presenza discreta, ma riconosciuta come vicina all’ambiente politico della destra al governo, e in particolare all’orbita di Arianna Meloni. Due figure diverse, ma simboliche di un meccanismo vecchio quanto il potere stesso: quello delle nomine per affinità, per appartenenza, per legame.
Ecco allora che il discorso si fa più ampio: non è una questione di destra o di sinistra, ma di metodo. Un metodo che attraversa i decenni, cambia i protagonisti ma non il copione. In questo senso, le nomine di Cacciamani e Rocca diventano il riflesso di un sistema che, da Cinecittà ai ministeri, continua a funzionare con la stessa logica: più che il talento, conta la fedeltà.
Dalla politica alla cultura, dalla finanza alla sanità, il copione non cambia: un ristretto circuito di persone si passa le chiavi dei palazzi che contano. Ogni governo promette di scardinare il sistema, ma finisce per alimentarlo. Ogni nuova stagione politica si presenta come quella del rinnovamento, e invece diventa la stagione delle nuove fedeltà.
Il risultato è che in Italia la parola “nomina” ha perso la sua neutralità. Non significa più scegliere il più bravo, ma “sistemare” qualcuno.
Si nomina chi è utile, chi è vicino, chi sa restituire il favore. E chi osa denunciare questi meccanismi, come Report, viene bollato come “fazioso”, “ideologico”, “strumentale”.
Ma le inchieste servono proprio a questo: a guardare dentro le crepe del potere, non a carezzarle.
Quando Ranucci indaga sulle nomine nel cinema o sulla riforma del premierato, non lo fa per “colpire un partito”, ma per raccontare un sistema.
Un sistema che, da decenni, sopravvive a tutti i governi. Che cambia volto, ma non sostanza. Che si rigenera in forme sempre nuove, passando dalle cooperative rosse agli amici della premier, dalle lobby bancarie alle fondazioni culturali.
Ecco perché parlare di destra o sinistra, in questo contesto, è un errore. La vera frattura è tra chi usa il potere come strumento di servizio e chi lo usa come rendita.
E in mezzo, c’è il giornalismo: quello vero, che non cerca consenso, ma fatti.
C’è una frase che circola spesso nei corridoi della cultura italiana: “Non basta essere bravi, bisogna essere nel giro giusto”.
Ecco il punto: nel nostro Paese, la cultura non è solo un’industria, ma un campo di potere. Un luogo dove si gioca a modellare immaginari, carriere, prestigio.
Quando i vertici del cinema, della moda, dell’audiovisivo vengono scelti con logiche di appartenenza, si tradisce la funzione stessa della cultura: essere libera, non serva.
È per questo che il caso Cacciamani – tra le indagini sul tax credit e le ombre dei rapporti politici – diventa simbolico. Non importa solo chi sia lei, ma cosa rappresenti: la continuità di un modello in cui il talento deve attendere il suo turno, e spesso non arriva mai.
L’attentato a Ranucci non è stato solo un gesto intimidatorio. È stato un segnale.
Un modo per dire: “Attento a dove metti le mani”.
Ma quella bomba, paradossalmente, ha reso più potente il significato del ritorno di Report.
Perché se ogni inchiesta che tocca il potere scatena reazioni di questo tipo, significa che quel potere ha paura. E la paura, a volte, è il primo segno che l’inchiesta sta andando nella direzione giusta.
Il ritorno di Report dopo la minaccia, e nel pieno delle polemiche sulle nomine e gli intrecci, ci costringe a porci una domanda semplice: quanto siamo disposti a tollerare questo sistema?
Perché il problema non è solo chi nomina chi, ma il silenzio con cui spesso assistiamo a tutto questo. È l’abitudine. È la normalità che diventa complicità.
Eppure, non tutto è perduto.
Ogni volta che un giornalista come Ranucci torna in onda dopo un attentato, ogni volta che un’inchiesta riapre gli occhi dell’opinione pubblica, ogni volta che un cittadino smette di dire “tanto è sempre stato così”, allora si riaccende una piccola forma di resistenza civile.
Il ritorno di Report non è solo la ripresa di un programma televisivo. È la rappresentazione di un Paese che, nonostante le minacce e le ipocrisie, ha ancora chi è disposto a guardare dentro le sue ombre.
È un atto di coraggio civile, ma anche uno specchio amaro: perché mentre Ranucci indaga sui poteri che decidono, noi dobbiamo chiederci quante volte abbiamo accettato, in silenzio, che le cose andassero così.
In fondo, la vera bomba non è quella esplosa davanti casa sua.
È quella che continua a scoppiare ogni giorno, invisibile, dentro le istituzioni, dentro la cultura, dentro un sistema che non cambia mai — perché, semplicemente, non vuole cambiare.


