Era iniziata con il profumo della rinascita, è finita nel silenzio di una domenica amara. Il 27 ottobre 2025, la Juventus ha ufficialmente sollevato Igor Tudor dall’incarico di allenatore della prima squadra. Una decisione ponderata ma inevitabile, arrivata dopo sette mesi in cui il tecnico croato ha alternato solidità e crisi, costruzione e crollo.
Quando Tudor tornò a Torino, lo fece da ex bianconero che conosceva il peso della maglia e la fame del club. E per un po’, sembrò davvero il profilo giusto. Portò con sé disciplina, identità, un’idea di calcio verticale e fisico, capace di dare ordine a una squadra reduce da mesi di incertezza. Il suo impatto iniziale fu concreto: la Juventus ritrovò equilibrio, conquistò risultati utili e riaccese la speranza di un ambiente che da troppo tempo chiedeva continuità.
Il gruppo reagì bene. I giocatori sembravano credere nella sua idea di pressing alto, nelle linee corte, nella mentalità “da battaglia” che il croato voleva trasmettere. La difesa tornò solida, il centrocampo più aggressivo, l’atteggiamento da grande squadra. In quei primi mesi, Tudor incarnò la figura del comandante pragmatico, capace di restituire orgoglio e compattezza.
Ma l’equilibrio, come spesso accade nel calcio, si è rivelato fragile. Da settembre in poi, la Juventus ha perso ritmo, idee e risultati. Otto partite senza vittorie, troppe occasioni sprecate e una sterilità offensiva che ha reso inevitabile il tracollo. La squadra ha smesso di correre con convinzione, il gioco si è appiattito e la fiducia si è sgretolata giorno dopo giorno.
Tudor ha provato a correggere la rotta, ma senza successo. Le sue certezze tattiche (difesa a tre, transizioni rapide, verticalità) sono diventate gabbie. Mancavano fantasia e fluidità, e il pressing organizzato si è trasformato in confusione. Anche la gestione del gruppo, fino a poco tempo prima un punto di forza, ha cominciato a incrinarsi: rotazioni discutibili, tensioni interne, decisioni difficili da comprendere.
Non si può però isolare il fallimento di Tudor dal contesto dirigenziale che lo ha accompagnato. In cima alla piramide, John Elkann continua a rappresentare una presenza forte ma distante, una guida più economico-finanziaria che sportiva. La Juventus di questi anni sembra oscillare tra strategie aziendali e ambizioni calcistiche senza un vero equilibrio. Le scelte tecniche, spesso figlie di compromessi o di reazioni impulsive, hanno mostrato la mancanza di un progetto coerente e duraturo.
Il caso Tudor ne è la prova più recente: una nomina nata più per pragmatismo che per visione, e una revoca che appare come l’ennesima toppa su un tessuto già logoro. Elkann e il suo entourage, pur predicando rinnovamento, hanno offerto un percorso frammentato, in cui gli allenatori cambiano ma i problemi restano.
Sette mesi non bastano per costruire un ciclo, ma possono bastare per lasciare un segno. Tudor ha lasciato una Juventus più rigorosa, più attenta ai dettagli, ma anche meno libera di esprimersi. Ha ridato struttura, ma non leggerezza; ordine, ma non ispirazione. È stato il medico che ha rimesso il paziente in piedi, senza riuscire però a farlo correre.
L’esonero non è solo la fine di un incarico, ma la fotografia perfetta di una Juventus in bilico tra passato e futuro. Una società che cerca ancora se stessa, sospesa tra la voglia di tornare grande e la paura di ripetere gli stessi errori. Ma il vero interrogativo ora riguarda chi decide: senza una linea chiara, anche il prossimo allenatore rischierà di bruciarsi nel fuoco delle aspettative.
Tudor è stato la parentesi dell’onestà del lavoro, della disciplina come unica cura possibile. Ma nel calcio, come nella vita, non basta l’ordine se manca la scintilla e la Juventus, finché resterà prigioniera delle indecisioni da parte di chi dovrebbe guidarla, continuerà a inseguire un futuro che non riesce a costruire.
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