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Una giustizia “alla Berlusconi”: il sogno realizzato della destra e il rischio per la democrazia

La riforma Nordio-Meloni porta a compimento il vecchio progetto berlusconiano: una giustizia più controllabile, meno autonoma e più vicina al potere politico. Ma una giustizia “tranquilla” non è una giustizia libera.

by CARLA NAPOLITANO
5 Novembre 2025
in Approfondimenti
Reading Time: 9 mins read
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C’è un filo, sottile ma costante, che lega Silvio Berlusconi a Giorgia Meloni. È il filo di una visione della giustizia che da trent’anni attraversa la destra italiana: la convinzione che la magistratura, così com’è, sia un potere troppo forte, troppo politicizzato, troppo invadente.
E che, per “modernizzare” il Paese, vada messa “al suo posto”.

Ora, quel filo non è più solo una suggestione. Con la riforma della giustizia voluta dal governo Meloni e dal ministro Carlo Nordio, quel vecchio sogno berlusconiano — quello di “rimettere in riga” i giudici, di rendere più prevedibili e “governabili” le loro decisioni — sta finalmente prendendo corpo.
E non è un caso che molti esponenti di Forza Italia abbiano salutato la riforma come un “omaggio a Silvio”, una sorta di eredità spirituale e politica. Non una riforma “per tutti”, ma una riforma che, nelle parole e nei toni, sa tanto di risarcimento morale a chi per anni ha vissuto la magistratura come un nemico.
Quasi un atto simbolico: «Abbiamo vinto, anche sulla giustizia».

Il ministro Nordio — ex magistrato, figura colta e raffinata, spesso apprezzata anche fuori dalla destra — ha provato nei giorni scorsi a stemperare le polemiche.
Ha detto una frase che ha fatto discutere: «Questa riforma può giovare anche alla sinistra di Elly Schlein».
Un messaggio ambiguo, quasi tattico. Come a dire: “Non fatevi spaventare, non è una riforma di destra, serve a tutti”.
Ma dietro quella dichiarazione c’è qualcosa di più sottile. È una strategia retorica: presentare un provvedimento fortemente ideologico come se fosse neutro, o addirittura bipartisan.
È un modo per disinnescare il conflitto, spostando il dibattito dal contenuto alla percezione.

Perché — diciamolo chiaramente — questa riforma non è neutra.
È un cambio di paradigma. È un colpo d’ascia ad un equilibrio faticosamente costruito dalla Costituzione, quello fra i tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario.
La separazione dei poteri non è un tecnicismo: è la garanzia che nessuno possa controllare tutto. È ciò che distingue una democrazia liberale da un regime in cui il potere politico mette il naso ovunque, anche nei tribunali.

La riforma introduce una separazione netta delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.
Oggi, in Italia, un magistrato può passare — nel corso della carriera — dal ruolo di pm a quello di giudice. Non è un dettaglio: questo principio garantisce una visione comune della funzione giudiziaria come servizio pubblico alla verità, non alla politica.
Con la separazione voluta da Nordio, i due percorsi diventano distinti, quasi contrapposti. I pm finiranno per dipendere di più dall’esecutivo, o da organi esterni di controllo, perdendo parte della loro autonomia.

In apparenza, è una misura di “equilibrio”: chi accusa non può giudicare.
Ma in realtà è il primo passo per creare due magistrature: una più autonoma (quella dei giudici) e una più “filtrata” (quella dei pubblici ministeri), che potrebbe essere più facilmente influenzata dal potere politico o mediatico.
E qui emerge la verità che il governo non dice: questa riforma non tutela i cittadini, ma dà più potere all’esecutivo.
Svuota la magistratura della sua forza di controllo e rafforza chi governa, riducendo la distanza tra chi deve applicare la legge e chi, la legge, la scrive.
E ogni volta che lo Stato concentra troppo potere in un solo ambito, i diritti dei cittadini si fanno più fragili, più vulnerabili, più esposti.

Poi c’è un altro punto cruciale: la riforma interviene anche sul Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), l’organo che governa i giudici.
L’introduzione del sorteggio per la nomina dei membri o altre modifiche ai meccanismi elettivi rischiano di indebolire la rappresentanza interna e, paradossalmente, di aumentare il peso della politica.
Perché ogni volta che si svuota l’autonomia di un organo costituzionale, qualcuno — inevitabilmente — riempie quel vuoto. E quel qualcuno, in questo caso, sarà il governo.

La narrativa ufficiale parla di efficienza, di “snellimento”, di tempi più rapidi.
Tutte parole che suonano bene, soprattutto a un pubblico stanco di processi infiniti, di prescrizioni, di sentenze che arrivano dopo vent’anni.
Ma non bisogna confondere la velocità con la giustizia.
Un processo veloce non è necessariamente un processo giusto.
E un sistema giudiziario meno indipendente può diventare molto efficiente… nel proteggere i potenti e punire i deboli.

Dietro l’argomento tecnico si nasconde una precisa visione ideologica: quella di una giustizia più “prevedibile”, cioè meno libera, meno autonoma, più in linea con il potere politico.
È l’idea che il giudice non debba disturbare il manovratore, ma garantire la “stabilità del sistema”.
Una giustizia “funzionale” alla governabilità, non alla verità.

Ecco perché la riforma Nordio è pericolosa. Non perché sia sbagliato migliorare i tribunali o rendere più rapidi i procedimenti ma perché dietro la facciata dell’efficienza si sta riscrivendo il concetto stesso di indipendenza della magistratura.
E quando la giustizia smette di essere un contrappeso e diventa un’estensione del potere politico, la democrazia comincia a indebolirsi in silenzio.

Non è un mistero che la destra italiana, da Berlusconi in poi, viva con fastidio il potere giudiziario.
Per decenni la magistratura è stata dipinta come un avversario politico: “le toghe rosse”, “i pm militanti”, “le procure che vogliono fare politica”.
Un racconto che ha attecchito, anche perché la giustizia italiana ha mille difetti, spesso veri: lentezza, autoreferenzialità, linguaggi opachi.
Ma da qui a trasformare il rimedio in una vendetta, il passo è breve.

Questa riforma nasce da un’idea di fondo: che la magistratura sia un potere da ridimensionare.
Un potere che ha osato indagare troppo, che ha toccato il potere politico, che ha scoperchiato scandali, che ha messo in imbarazzo i governi.
È la logica di chi non vuole riformare per migliorare, ma per “normalizzare”.
E quando una riforma nasce da un sentimento di rivalsa, difficilmente può produrre giustizia: produce solo nuovi squilibri.

Nordio ha detto che anche la sinistra potrebbe trarre vantaggio dalla riforma.
Tecnicamente, non ha torto: se un domani la sinistra tornasse al governo, troverebbe un sistema giudiziario più “tranquillo”, meno invadente, meno capace di indagare sul potere politico.
Ma è proprio questo il punto: una riforma che può giovare a chi governa, indipendentemente da chi governa, è una riforma sbagliata.
Perché la giustizia non deve “giovare” a nessuno.
Deve limitare, controllare, bilanciare.
Deve essere scomoda per tutti, non comoda per chi ha il potere.

La vera forza di una democrazia sta nella capacità delle sue istituzioni di dire “no” anche a chi comanda.
Una giustizia che non fa paura a nessuno è una giustizia che non serve più a niente.

Questa riforma tocca il cuore della nostra democrazia.
Non è solo una questione di procedure o di carriere, ma di equilibrio tra poteri.
Quando il potere politico comincia a intervenire sulla magistratura, anche indirettamente, la libertà di tutti comincia a restringersi.
Perché la giustizia è il luogo dove il cittadino può difendersi dallo Stato.
E se quel luogo diventa controllato dallo Stato stesso, la difesa si trasforma in un’illusione.

Ecco perché questa riforma, più che tutelare i cittadini, li espone.
Non rafforza le garanzie, le riduce.
Non riequilibra i poteri, li concentra.
È una giustizia che non guarda più al cittadino ma all’esecutivo, e che finisce per spostare l’asse del potere verso chi governa.
E quando chi governa può anche decidere chi e come viene giudicato, non serve un dittatore per perdere la libertà: basta una legge “fatta bene”.

E non servono derive autoritarie per scivolare nel rischio.
Basta abituarsi, giorno dopo giorno, all’idea che le riforme siano neutre, inevitabili, “tecniche”.
Basta smettere di vigilare, basta credere che la democrazia possa vivere senza conflitto, senza contrappesi, senza opposizione.

La riforma della giustizia voluta da Giorgia Meloni e Carlo Nordio si presenta come un’operazione di modernizzazione.
Ma sotto la superficie, contiene un messaggio preciso: la giustizia deve essere meno autonoma, più “gestibile”.
È una tentazione antica, che attraversa molti governi, di ogni colore: ridurre i poteri di controllo in nome dell’efficienza.
Ma l’efficienza non è un valore assoluto, se a pagarla è la libertà.

La domanda, allora, è semplice: vogliamo una giustizia più veloce o una giustizia più giusta?
Perché le due cose, purtroppo, non sempre coincidono.
E in uno Stato di diritto, la seconda deve venire sempre prima della prima.


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CARLA NAPOLITANO

Giurista, scrittrice. E' autrice ed appassionata narratrice del quotidiano capace di cogliere il lato insolito e a volte poetico della realtà. Con uno sguardo attento ed ironico esplora e narra con originalità gli aspetti più sorprendenti della vita di tutti i giorni.

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