L’epilogo è arrivato dopo otto anni di carte, indagini, ricorsi, rinvii e prescrizioni: Ciro Carnevale, blogger di Venafro, perde anche in Cassazione. La Suprema Corte ha infatti respinto il suo ricorso, confermando quanto già stabilito in primo e secondo grado: il reato c’è stato, anche se prescrizione e tempi dilatati hanno impedito una condanna penale definitiva, non hanno però cancellato la responsabilità civile e i risarcimenti dovuti alle parti offese.
A ricostruire nel dettaglio l’intera vicenda è una nota ufficiale dell’Ordine dei Giornalisti del Molise, scritta e firmata dal Presidente Prof. Vincenzo Cimino, che ripercorre punto per punto lo sviluppo del caso, dal 2017 fino all’ultima decisione della Cassazione.
Il caso: insulti sessisti, minacce e un attacco senza precedenti
La vicenda nasce da una lunga serie di insulti volgari, sessisti, diffamazioni e minacce di violenza rivolti alla direttrice di Telemolise Manuela Petescia, e alla testata giornalistica Primonumero, che in quegli anni subì anche un grave attacco informatico. Tutto ebbe inizio dopo un’intervista all’allora presidente della Regione Molise: da quel momento, un’ondata di violenza verbale si abbatté sui social, attraverso una catena di profili falsi.
Le indagini della polizia postale di Campobasso, coordinate dalla Procura, riuscirono a ricostruire l’intera rete di account e a identificare l’autore: Ciro Carnevale, poi rinviato a giudizio dal Tribunale di Isernia.
La condanna in primo grado e la conferma in Appello
Il Tribunale di Isernia condannò Carnevale a due anni di reclusione.
La Corte d’Appello di Campobasso confermò la responsabilità, dichiarando però la prescrizione per la parte penale. Una prescrizione che, come sottolinea la nota del Presidente Cimino, non cancella il reato, né l’obbligo di risarcire le parti civili.
La sentenza d’Appello stabilisce:
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conferma della colpevolezza;
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prescrizione del reato con mantenimento del giudizio civile;
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obbligo per Carnevale di risarcire Manuela Petescia e Primonumero;
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pagamento delle spese processuali.
Pur avendo accettato la prescrizione, Carnevale ha tentato il ricorso in Cassazione per evitare il pagamento dei risarcimenti. L’ultimo tentativo è fallito: la Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando definitivamente la responsabilità civile e aprendo alla fase di recupero del dovuto.
Le parole dell’avvocato La Cava
Nel testo riportato dal Presidente Cimino, l’avvocato Francesco La Cava, legale di Manuela Petescia, evidenzia un passaggio cruciale: «Se Carnevale avesse voluto proclamarsi innocente, avrebbe dovuto rinunciare alla prescrizione e chiedere che il giudice si esprimesse sul merito». Due giudici (Appello e Cassazione) confermano che non esistono elementi per una assoluzione. Le parti civili stanno già avviando le procedure per il recupero dei risarcimenti. Persistono nuove offese online, che potrebbero generare ulteriori querele.
Il ruolo dell’Ordine dei Giornalisti del Molise
Nella nota, il Presidente dell’OdG Molise, Prof. Vincenzo Cimino, non si limita alla ricostruzione tecnica della vicenda. La sua posizione è chiara e netta:
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solidarietà totale a Manuela Petescia, giornalista, donna, madre;
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condanna degli attacchi sessisti e violenti subiti;
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soddisfazione per l’esito di tre gradi di giudizio;
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richiesta di inasprimento delle pene per chi usa i social come arma;
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necessità di accelerare i processi, perché la lentezza alimenta impunità;
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allarme per un’opinione pubblica che tende a dimenticare il male ricevuto.
Una vicenda simbolo: i social non sono una zona franca
Quello di Ciro Carnevale non è un semplice caso di diffamazione. È un precedente che ribadisce un principio fondamentale:
le piattaforme digitali non sono spazi senza legge. Le parole, anche online, hanno conseguenze.
E quando colpiscono con violenza, sessismo e minaccia, diventano reati. Reati che la giustizia – pur con i suoi tempi lenti – riconosce e sanziona.
La nota del Presidente Cimino chiude con un auspicio che vale per tutti:
che vicende come questa non si ripetano più e che si comprenda una volta per tutte che la libertà di espressione non è libertà di offendere.





