La vittoria di Roberto Fico alle presidenziali in Campania arriva come un’onda lunga, preparata da mesi di tensione politica ma anche da un desiderio di cambiamento che, seppure espresso da una minoranza di votanti, sembra aver trovato in lui il volto simbolico di una possibile nuova stagione. Non è una vittoria qualunque, e non potrebbe esserlo. Non lo è per la storia personale di Fico, che rimanda alle origini civiche del Movimento 5 Stelle e a un’idea di politica partecipata, né per il contesto in cui questa elezione si colloca: un Paese attraversato da polarizzazioni, da disillusione, da una ricerca costante di figure che riescano a tenere insieme idealità e concretezza. In Campania, questa attesa era diventata quasi una necessità.
L’elezione di Fico rappresenta innanzitutto una discontinuità, e questa parola non va presa alla leggera. Dopo anni in cui la Regione è stata legata a leadership forti, verticali, a volte persino ingombranti, la figura di Fico sembra suggerire un modello diverso, più dialogante, meno centrato sulla personalità e più sul metodo. La sua promessa non è quella dell’uomo solo al comando ma del presidente che apre processi, che include, che mette al centro le energie diffuse della società campana. Una visione che, almeno sulla carta, appare come una rottura rispetto al passato.
Eppure proprio questa promessa porta con sé un rischio evidente: quello di scontrarsi con un sistema amministrativo stratificato, complesso, spesso resistente al cambiamento. In Campania governare significa fare i conti con intrecci politici e burocratici che hanno radici profonde. Non basta il desiderio di cambiare, servono costanza, strategia, capacità di indirizzo.
Fico ha condotto una campagna in cui il tema dominante è stato quello del servizio, un’idea quasi etica della politica: non il potere come vertice, ma come strumento. Ha parlato di giovani, di talenti, di competenze e lo ha fatto non come slogan ma come necessità reale per una terra che vive da troppo tempo una fuga continua dei suoi figli migliori. Ma se da un lato questa narrazione ha creato entusiasmo, dall’altro ha sollevato interrogativi: quanto sarà possibile tradurre questa visione in scelte concrete? Quali strumenti ha davvero il presidente regionale per invertire dinamiche così lunghe e dolorose?
E qui emerge il primo grande nodo della sua vittoria: l’affluenza. Una partecipazione così bassa è una ferita politica. Non riguarda soltanto la Campania, è un problema italiano ma in questo contesto diventa ancora più evidente. Fico ha vinto nettamente ma su una base sociale che si è mostrata in larga parte distante, sfiduciata, incapace o non più interessata a credere nelle istituzioni. Questa ombra pesa, e peserà soprattutto nei primi anni di governo. Perché il vero banco di prova non sarà accontentare chi lo ha votato ma riconnettere al discorso politico chi ha scelto di restarne fuori. Se non ci riuscirà, la sua vittoria rischierà di restare un evento molto visibile e molto fragile allo stesso tempo.
C’è poi l’aspetto più politico, quello nazionale. Non è un mistero che la vittoria di Fico sia stata letta rapidamente come un segnale per il campo progressista, un’indicazione di possibilità, quasi un test generale per un progetto più ampio che vede alleati il Movimento 5 Stelle, il Partito Democratico e una serie di realtà civiche e ambientaliste. In questo senso, la Campania è diventata improvvisamente un laboratorio politico, un luogo in cui si sperimenta una formula che potrebbe essere riproposta su scala nazionale. Ma i laboratori non sempre producono ciò che si immagina. Un’alleanza ampia è una forza se riesce a mantenere coesione e visione comune ma può diventare un ostacolo se ogni componente inizia a tirare verso il proprio interesse. Il rischio che la coalizione si trasformi in un equilibrio instabile è reale. Fico dovrà essere non solo presidente ma anche mediatore, regista, architetto di un percorso condiviso. E questo richiede un tipo di leadership che va oltre la capacità di vincere le elezioni.
Tuttavia, sarebbe ingiusto non riconoscere i punti di forza che la sua elezione porta con sé. Fico è percepito da molti come un politico pulito, coerente, istituzionale, rispettoso. Il suo stile da presidente della Camera lo ha reso una figura dialogante, rara in un panorama spesso dominato da conflittualità urlata. In una regione come la Campania, questo può essere un valore enorme. Può contribuire a ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni, può dare un volto nuovo a un territorio che troppo spesso viene rappresentato solo attraverso stereotipi negativi.
Sul piano delle politiche concrete, ci si aspetta da lui un’attenzione forte alla sanità pubblica, alla lotta alle disuguaglianze, al lavoro, ai trasporti, alla gestione dei rifiuti, alla tutela dell’ambiente. Temi su cui ha
insistito in campagna elettorale e che potrebbero definire la sua identità politica. Ma sono anche terreni difficili, perché richiedono investimenti, infrastrutture, una macchina amministrativa efficiente e una capacità di dialogo costante con il governo centrale e con l’Unione Europea. Nessuno di questi elementi è scontato. Se Fico ci riuscirà, potrà imprimere una vera svolta. Se fallirà, la sua promessa rischierà di diventare un boomerang.
E poi c’è un’altra dimensione, forse quella più delicata e più affascinante: la possibilità che la Campania, grazie a questa elezione, diventi un laboratorio civico. Non solo un esperimento politico ma un luogo in cui i cittadini tornano a sentirsi parte, in cui le istituzioni ascoltano, in cui il dibattito pubblico non è più una guerra di slogan ma un confronto reale. È una speranza alta, forse utopica ma è anche ciò di cui questa regione avrebbe bisogno per spezzare definitivamente il ciclo della sfiducia. Fico, da uomo delle origini attiviste, questo lo sa. E la sua credibilità, più che sulle opere, si giocherà sulla capacità di rendere la cittadinanza attiva parte della trasformazione.
La domanda centrale rimane: questa vittoria è davvero un passo verso qualcosa di nuovo? La risposta, per ora, è sospesa. È un “forse” complesso, pieno di condizioni. C’è un movimento, un’aria nuova, la sensazione che la Campania voglia cambiare e che una parte dei suoi cittadini abbia visto in Fico la persona adatta a guidare questo cambio.
Ma ci sono anche ombre profondissime, fragilità strutturali, resistenze interne, limiti politici. La novità sarà autentica solo se si tradurrà in una pratica quotidiana, in scelte coraggiose, in una visione che tenga insieme idealismo e realismo.
Nei prossimi mesi vedremo i primi segnali: le nomine, le priorità di bilancio, i primi interventi. Ma il giudizio più vero non sarà immediato. Per capire se questa vittoria è stata una svolta o solo una parentesi serviranno anni, forse l’intera legislatura. Fico ha vinto una battaglia. Ora inizia il percorso più difficile: convincere, includere, costruire, resistere alle delusioni, mantenere fede a una promessa che non gli appartiene solo come politico, ma come figura simbolica di qualcosa che molti, in Campania e non solo, sperano da tempo.
In fondo la sua vittoria non è solo la storia di un uomo che conquista la presidenza di una Regione. È il racconto di una terra che, pur ferita e disillusa, continua a cercare una possibilità. Fico dovrà dimostrare che questa possibilità non è un miraggio ma un sentiero reale. E dovrà farlo con una pazienza ed una determinazione che non si vedono in una tornata elettorale ma si misurano nell’invisibile lavoro quotidiano di chi governa. Se ci riuscirà, allora sì: questa potrebbe essere una svolta. Non un lampo improvviso ma l’inizio lento e faticoso di una stagione nuova.



