Ci sono storie che sembrano troppo assurde per essere vere, troppo crudeli per appartenere al continente che amiamo definire “culla dei diritti”, troppo inaccettabili per poter essere guardate in faccia senza provare vergogna. Il cosiddetto “safari umano” di Sarajevo è una di queste: un’ombra lunga trent’anni, che oggi torna alla luce con un peso ancora più grave di quando fu raccontata per la prima volta.
Da settimane, mentre a Roma la magistratura tenta di ricucire fili spezzati e recuperare voci che non sono mai state davvero ascoltate, ci chiediamo tutti come sia stato possibile che un orrore del genere sia rimasto ai margini della memoria collettiva. Come abbiamo fatto, noi europei, a convivere per tre decenni con l’idea — sussurrata, mai davvero indagata — che durante l’assedio di Sarajevo non ci fossero solo cecchini a sparare sui civili ma anche spettatori paganti, occidentali benestanti che assistevano alla caccia come a una perversione esotica in un teatro di guerra?
La domanda centrale, la più bruciante, resta: perché solo adesso?
Non è una domanda semplice. Non lo è mai, quando interviene il tempo a seppellire, a confondere, a sporcare le responsabilità. Per anni, in Europa e in Italia, la guerra di Bosnia è stata raccontata più come una tragedia lontana che come una ferita del continente. Si è preferito lasciarla negli archivi diplomatici, nei libri di storia, nelle testimonianze disperse nei centri di accoglienza. Eppure era lì, vicinissima. Così vicina che, se avessimo voluto davvero capire, avremmo potuto farlo.
Il punto è che per molto tempo non abbiamo avuto né gli strumenti né, soprattutto, la volontà. Gli anni Novanta non erano un’epoca strutturata per le grandi indagini transnazionali, non c’erano reti di cooperazione giudiziaria simili a quelle di oggi, né banche dati digitali capaci di incrociare testimonianze, prove, missioni internazionali, materiali militari. Ma questo è solo un pezzo della verità. L’altro pezzo, più scomodo, riguarda noi: per molto tempo non abbiamo voluto vedere, non abbiamo voluto crederci, non abbiamo voluto interrogarci su quanto eravamo disposti a tollerare pur di mantenere intatto il mito di un’Europa che osserva, giudica, ma non sbaglia mai.
Oggi, invece, qualcosa è cambiato. Sono cambiate le tecnologie, certo. Sono cambiate le condizioni geopolitiche, è cambiato il clima culturale e civile, è cambiato il coraggio delle vittime, che dopo trent’anni trovano finalmente la forza di raccontare con precisione dettagli che prima non riuscivano a pronunciare. Ma soprattutto è cambiata la nostra consapevolezza: abbiamo capito, forse tardi ma non troppo tardi, che certi silenzi non proteggono nessuno. Sono solo un modo elegante per mascherare un’inconcepibile forma di indifferenza.
Ed è in questo vuoto, in questo silenzio colpevole, che si inserisce il nodo più delicato di tutta la vicenda: il possibile coinvolgimento — diretto o indiretto — di esponenti delle élite europee. Magistrati, avvocati, imprenditori, professionisti, persone che negli anni del dopo-guerra si sono sedute ai tavoli decisionali, hanno fatto carriera, hanno occupato ruoli pubblici o privati di prestigio. Oggi, se davvero alcune di queste figure dovessero emergere dalle indagini, non sarebbe soltanto un fatto giudiziario. Sarebbe un terremoto morale.
Che cosa ne sarà di loro? È una domanda che scotta, e che molti preferirebbero evitare. Ma è una domanda legittima, inevitabile. La giustizia, quella formale, quella delle aule dei tribunali, farà il suo corso solo se ci saranno fatti, nomi, date, responsabilità accertabili. Ma esiste un’altra forma di giudizio, più profonda, più difficile da scalfire: la giustizia dell’opinione pubblica, la giustizia del tempo, la giustizia della memoria. Anche senza un processo, anche senza una condanna, il solo affiorare di certe verità potrebbe riscrivere reputazioni, aprire ferite istituzionali, costringere un’intera classe dirigente a confrontarsi con l’idea di non essere stata, in quegli anni, irreprensibile come si è sempre raccontata.
Ma il punto non è solo questo. Il punto è capire che indagare oggi non è un gesto sterile, non è una sorta di archeologia giudiziaria che serve solo a riempire dossier impolverati. Indagare oggi significa riaffermare un principio: non esiste prescrizione morale per un crimine contro i civili.
Non importa quanto tempo sia passato.
Non importa quanti governi si siano alternati, quanti confini siano cambiati, quante ricostruzioni siano state fatte.
Se un orrore del genere è accaduto, se qualcuno ha sparato per intrattenere, se qualcuno ha assistito per divertimento, se qualcuno ha pagato per farlo, allora abbiamo il dovere non solo di accertarlo, ma di comprenderlo. Perché certe verità non servono a punire il passato ma ad orientare il futuro.
La vicenda del “safari umano” è uno specchio che ci costringe a guardarci senza filtri. Ci mostra che la violenza non esplode solo nei luoghi dove c’è guerra ma anche negli spazi dove c’è indifferenza. E che il confine tra civiltà e barbarie non è geografico: è morale. Per trent’anni abbiamo preferito non guardare. Oggi non possiamo più permettercelo.
Indagare adesso significa restituire dignità alle vittime, riconoscere ciò che è stato, prendere atto che la memoria non è un accessorio: è l’unico modo per impedirci di ripetere gli errori che abbiamo già compiuto. Significa guardare in faccia una delle zone più buie della nostra storia recente, con la consapevolezza che il tempo non lava via nulla. Può solo rendere più urgente ciò che abbiamo seppellito.
Forse è vero che arriviamo tardi. Ma arrivare tardi è comunque meglio che continuare a far finta di niente. Perché la giustizia, anche quando arriva in ritardo, è sempre più onesta dell’oblio. E perché il silenzio, quando dura troppo, diventa un complice.
E di complici, in questa storia, ce ne sono già stati fin troppi.



