La quarta edizione del Premio Nazionale Lea Garofalo, che si è svolta a Cremona dal 24 al 26 novembre 2025, avrebbe dovuto essere, anche, una potente chiamata alle istituzioni locali affinché prendessero coscienza delle loro responsabilità nella tutela della memoria e della verità. Invece, l’assenza delle rappresentanze istituzionali nell’incontro con Silvia Pinelli e Claudia Pinelli, figlie di Pino Pinelli, ha trasformato quel palco in un simbolo di solitudine civile.
Un fatto che non è solo criticabile, ma che chiede a gran voce una domanda: com’è possibile che una città che ospita un Premio dedicato alla legalità e alla memoria collettiva non si presenti quando la memoria chiede attenzione?

La cerimonia: memoria, testimonianza, lutto e verità
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Silvia e Claudia Pinelli, salite sul palco del Premio, hanno restituito non solo la storia di un padre brutalmente spezzato, lanciato di proposito dai rappresentanti istituzionali di un Paese corrotto da una finestra della questura di Milano dopo la strage del 12 dicembre 1969, una delle vicende più oscure della storia repubblicana, ma anche il peso dell’eredità morale che hanno deciso di farsi carico.
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È stato proiettato il docufilm Pino. Vita accidentale di un anarchico, che ricostruisce le vicende di Pinelli, tra ingiustizie, depistaggi, ombre dello Stato e una verità che continua a chiedere giustizia.
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Il Premio, come ha ricordato la presentazione ufficiale, non è solo per chi sfidò mafie e omertà, ma per tutti coloro che, anche a decenni di distanza, credono nella verità, nella memoria attiva, nella giustizia. Quest’anno la memoria si è intrecciata con la Resistenza: è stato consegnato un riconoscimento alla memoria di Mario Coppetti, partigiano cremonese, ritirato dalla figlia.
Ma le istituzioni dov’erano? L’assenza che urla più forte degli applausi
Non un assessore, pochissimi cittadini, non un rappresentante delle istituzioni civili e militari cittadine presente alla serata con le figlie di Pinelli. Solo tre rappresentanti dell’Esercito italiano (un maresciallo e due militari). Non una firma, non una dichiarazione ufficiale, non un segno di presa in carico della memoria “scomoda”.
In una comunità chiamata a riflettere su fascismo, stragi, mafie, ingiustizie di Stato, una simile assenza rappresenta un tradimento, un’amnesia collettiva.
È particolarmente grave quando accade in un contesto organizzato per celebrare coraggio, verità, lotta contro l’oblio. L’indifferenza istituzionale pesa più di qualsiasi silenzio: è un segnale che dice “la memoria sì, purché non ci tocchi le responsabilità”.
Perché questa assenza è una beffa alla memoria e alla giustizia
Per le famiglie come quella di Pinelli, costrette a una vita di battaglie per la verità, la presenza istituzionale non è un orpello simbolico: è un segno concreto di presa di coscienza. Ignorarla significa condannare ancora una volta la verità all’emarginazione.
Significa buttare via un’occasione storica per restituire dignità alla memoria collettiva; per dire a giovani e cittadini che, sì, lo Stato può sbagliare — ma può anche chiedere perdono, riconoscere, fare i conti con le sue ombre.
È un messaggio gravissimo per le nuove generazioni: se le istituzioni storcono la bocca davanti al dolore storico, come potranno mai credere nella giustizia?
L’appello che non può restare inascoltato
Cremona, e più in generale ogni istituzione impegnata nella tutela della memoria, deve capire che la memoria non è un evento in calendario: è vita dissidente, è verità da coltivare ogni giorno. Chiediamo, come giornalisti, come organizzatori del Premio Nazionale Lea Garofalo, come cittadini, che venga data risposta: perché non c’erano allora? Perché non c’era uno straccio di rappresentanza quando due donne nate nella fiamma del dovere di verità hanno scelto di parlare al paese?
Perché la memoria non si celebra quando conviene. La memoria si onora sempre.

La storia di Pino Pinelli è una di quelle che continuano a camminare anche quando il tempo prova a coprirle di polvere. Un ferroviere, un anarchico generoso, un uomo che aveva attraversato la Resistenza con la naturalezza di chi sceglie da che parte stare.
Il 12 dicembre 1969, quando la bomba esplose alla Banca dell’Agricoltura di Milano nella strage di Piazza Fontana, fu come se un’ombra nera si abbattesse sulla città e sul Paese intero. In quell’ombra finirono anche gli innocenti, e tra loro proprio lui.
Pinelli venne portato in Questura come tanti altri, in quelle ore convulse di paura e depistaggi già in atto. Restò lì, chiuso tra le pareti di un ufficio di Stato, oltre il limite consentito, oltre ogni buon senso, oltre ogni diritto.
Per tre giorni fu interrogato senza sosta. Non era un sospetto, era una figura da incastrare: un pezzo da sacrificare alla pista fasulla che qualcuno voleva costruire sugli anarchici.
Poi arrivò la notte del 15 dicembre. E con essa la finestra aperta sul vuoto. Pinelli precipitò dal quarto piano della Questura, da quella stanza diventata per sempre un punto oscuro della nostra storia. Le versioni della polizia cambiarono nel tempo, si contorsero, si piegarono, ma non riuscirono mai a cancellare l’impressione che quella non fu una caduta: fu un grido, soffocato prima che potesse arrivare in strada.
Lo chiamarono “malore attivo”, un’espressione ridicola, una toppa messa su una ferita enorme. Un’offesa prima ancora che una falsità. Nessuno venne condannato. Nessuno pagò. Nessuno, nelle carte ufficiali dello Stato, volle dire ciò che la storia aveva già visto chiaramente: Pinelli non aveva niente a che fare con la bomba di Piazza Fontana. Era innocente.
Innocente quando entrò in Questura. Innocente quando ne uscì senza vita.
Da quel momento, la sua famiglia, oggi rappresentata da Silvia Pinelli e Claudia Pinelli, (senza dimenticare una donna straordinaria come sua moglie Licia), ha portato avanti una battaglia che profuma di verità e testardaggine, contro i muri di gomma dei poteri che avrebbero dovuto tutelarli.
Una battaglia che pesa ancora su questo Paese, perché il nome di Pinelli è un promemoria vivente: ricorda ciò che accade quando lo Stato dimentica la giustizia.
Una storia che non si chiude mai, che continua a bussare alle porte della nostra memoria, come fanno tutte le storie vere, tutte le storie scomode, tutte le storie che non smettono di chiedere: “E voi, da che parte state?”.
Quando la memoria diventa voce: Silvia e Claudia Pinelli al Premio Nazionale Lea Garofalo





