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Il silenzio che uccide: cosa ci insegna davvero il caso di Matilde Sorrentino

Un Paese che chiede coraggio ai suoi cittadini ma troppo spesso non li protegge: la storia di Matilde Sorrentino ci ricorda che senza giustizia tempestiva la verità resta sola, e chi denuncia paga ancora il prezzo più alto.

by CARLA NAPOLITANO
3 Dicembre 2025
in Approfondimenti
Reading Time: 7 mins read
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Ci sono storie che non smettono mai di farsi sentire, che continuano a ripresentarsi come onde lente ma ostinate, e che nonostante gli anni trascorsi conservano una forza capace di attraversare il tempo, scavalcare le stagioni politiche e insinuarsi nelle coscienze con la stessa urgenza del primo giorno, perché esistono vicende che non appartengono solo al passato ma continuano ad interrogarci con una brutalità che non lascia scampo e che ci ricorda quanto la giustizia, quando arriva tardi, non sia più davvero giustizia ma diventi un modo per prendere tempo, per riparare una fessura che nel frattempo è diventata voragine, per salvare la faccia dopo aver smarrito l’anima; e tra queste storie, una delle più dolorose e più eloquenti è sicuramente quella di Matilde Sorrentino, la madre di Torre Annunziata che nel 1999 venne assassinata per aver fatto ciò che in un Paese sano e giusto dovrebbe essere la normalità assoluta: denunciare abusi, difendere i bambini, pretendere che la verità non fosse sacrificata all’omertà.

Raccontare oggi la vicenda di Matilde non significa riesumare un fatto di cronaca lontano, non significa indulgere nella memoria per puro esercizio commemorativo, e nemmeno significa piangere una tragedia come se appartenesse a un altro tempo; al contrario, significa guardare con lucidità alle dinamiche di potere, di paura, di solitudine e di abbandono istituzionale che l’hanno resa possibile, perché quelle dinamiche non si sono dissolte, non sono state superate da una nuova sensibilità civile, anzi sono ancora presenti e in alcuni contesti addirittura più raffinate, più silenziose, più difficili da smascherare, rendendo la storia di Matilde una bussola morale che continua a puntare verso ciò che ancora manca e verso ciò che troppo spesso fingiamo di non vedere.

Per comprendere pienamente la ferita che questa vicenda rappresenta, bisogna tornare alla Torre Annunziata degli anni ’90, non quella delle cartoline turistiche, non quella dei racconti miti e folcloristici ma quella reale, cruda, difficile, incastonata tra mare, cemento e un senso di abbandono che da decenni si sedimentava nelle strade e nelle dinamiche sociali; una città in cui le famiglie vivevano spesso ai margini, in cui la presenza dello Stato era intermittente, in cui la fiducia nelle istituzioni era fragile come un vetro già incrinato, e in cui la camorra non aveva solo un ruolo criminale ma anche un ruolo sociale, capace di controllare i comportamenti, i rapporti, il linguaggio non detto, le paure taciute. In un contesto così, denunciare significava infrangere un tabù più solido della legge stessa, perché nella logica distorta del quartiere, chi parla diventa un problema, un corpo estraneo, una minaccia che mette a rischio non solo se stesso ma l’equilibrio malato che permette a tutti di sopravvivere come possono.

Eppure Matilde parlò, senza calcoli, senza strategie, senza protezioni alle spalle, lo fece come fanno le madri quando capiscono che i propri figli sono stati toccati, feriti, violati, e qualcosa dentro di loro si spezza in modo irreversibile, trasformando la paura in determinazione, la fragilità in coraggio; lo fece con la convinzione ingenua e insieme disperata che lo Stato avrebbe fatto la sua parte, che le istituzioni avrebbero protetto lei e le altre famiglie, che la giustizia avrebbe camminato più veloce del male che aveva osato denunciare. Ma la realtà fu diversa: lenta, incerta, impastata di inerzie e ritardi che di fatto lasciarono Matilde esposta come una candela accesa nel vento, sola a sostenere il peso di una battaglia enorme in un territorio in cui la solitudine di chi denuncia diventa una condanna.

Il sistema che avrebbe dovuto proteggerla si rivelò insufficiente, e quella insufficienza non fu un dettaglio tecnico, fu una responsabilità morale enorme, perché quando le indagini arrancano, quando la protezione promessa rimane sulla carta, quando gli avvisi arrivano tardi e le misure non vengono attuate con tempestività, chi ha detto la verità diventa un bersaglio facile, e nel caso di Matilde quella vulnerabilità si trasformò nella premessa del suo assassinio. Non fu un delitto estemporaneo, non fu un gesto impulsivo, non fu un raptus: fu un’esecuzione studiata, un segnale, un messaggio indirizzato a chiunque avesse avuto la tentazione di denunciare ancora, una punizione esemplare che confermò, tragicamente, che l’omertà non è solo frutto della paura ma anche della consapevolezza che lo Stato potrebbe non esserci quando serve davvero.

La morte di Matilde non fu solo l’eliminazione di una donna coraggiosa ma il fallimento di un intero sistema che non seppe tutelare una cittadina che aveva compiuto un gesto di civiltà; fu la dimostrazione che esiste una zona grigia in cui legalità e illegalità si toccano, si confondono, si sfiorano, e in cui la verità cammina su un filo sottile perché al primo soffio di vento rischia di cadere. E in quella zona grigia finiscono spesso le persone più esposte, le più fragili, le più coraggiose, quelle che non hanno reti politiche, familiari o sociali in grado di proteggerle, e che quando vengono lasciate sole diventano la prova vivente – o in questo caso tragicamente la prova uccisa – di ciò che succede quando la giustizia non riesce a essere tempestiva, quando la protezione non è immediata, quando il coraggio individuale supera le capacità collettive di sostenerlo.

Questa storia, però, non parla solo di un omicidio, parla della ferocia dell’omertà che permea molti quartieri del Sud e non solo, una omertà che non è sempre dettata da complicità volontaria ma spesso da una forma di sopravvivenza sociale, da un silenzio che le persone imparano fin da bambini, come un codice non scritto che serve a evitare guai, a stare al proprio posto, a non vedere troppo e a non dire troppo. L’omertà non è mai solo una scelta morale sbagliata, è un ecosistema che nasce dalla sfiducia nello Stato, dalla consapevolezza che denunciare potrebbe non cambiare nulla o potrebbe addirittura peggiorare le cose, e allora ci si rifugia nella protezione apparente del silenzio, che però non protegge davvero, e che nel caso di Matilde ha avvolto la sua figura in una solitudine che avrebbe dovuto essere l’esatto opposto di ciò che meritava.

Riflettere oggi su questa vicenda significa anche guardare a ciò che è cambiato e a ciò che non è cambiato: viviamo in un Paese in cui il tema della protezione delle vittime è ancora pieno di crepe, in cui chi denuncia violenze o abusi spesso si ritrova in un limbo, in cui i tempi dei processi sono ancora troppo lunghi, in cui le misure cautelari possono arrivare a distanza di mesi, in cui la credibilità di chi parla viene ancora messa in discussione, e in cui le istituzioni, sebbene più consapevoli rispetto al passato, non sempre riescono a garantire quella rete completa e solida che potrebbe davvero fare la differenza. È un problema culturale, sociale, istituzionale e anche politico, perché la tutela dei cittadini vulnerabili non può oscillare in base ai governi o ai finanziamenti del momento, deve essere un pilastro stabile, un impegno costante, una struttura che non cede quando la pressione aumenta.

In questo quadro più ampio, la storia di Matilde diventa un monito che dovrebbe funzionare come uno specchio, non per riflettere il passato ma per osservare il presente, e ci costringe a domandarci quante Matilde ci siano ancora oggi nel Paese: donne che denunciano ex compagni violenti e non vengono protette, madri che scoprono abusi e si scontrano con lungaggini inaccettabili, cittadini che segnalano attività criminali e restano soli, fragili, esposti. Ogni volta che qualcosa del genere accade, la vicenda di Matilde ritorna, non come un ricordo ma come una testimonianza ancora aperta, viva, dolorosa, che ci dice chiaramente che la giustizia non può essere un percorso ad ostacoli, non può essere un terreno in cui si rischia la vita, non può essere un luogo in cui la verità scomoda viene lasciata a sé stessa.

E proprio in questo risiede la sua eredità più importante: non nel simbolo astratto, non nel nome inciso sulla targa, non nella commemorazione rituale, ma nella responsabilità collettiva di impedire che il coraggio di una madre venga mai più tradito dalle istituzioni, dalla comunità o dall’indifferenza. Matilde non era un’eroina mitologica, era una donna normale, con una vita normale, che non avrebbe mai voluto diventare martire di nulla; voleva soltanto proteggere i suoi figli, e il fatto che per questo sia stata uccisa dovrebbe scuotere ancora oggi le fondamenta morali del Paese, ricordandoci che non basta indignarsi, non basta denunciare a posteriori, non basta commuoversi: bisogna costruire un sistema in cui chi parla non sia più un bersaglio, in cui la legalità non richieda atti di eroismo, in cui lo Stato sia presente senza esitazioni.

Se c’è una domanda che ci portiamo dietro ogni volta che ripensiamo a Matilde, è questa: la sua storia avrebbe oggi un esito diverso?
La risposta, se siamo sinceri, non è semplice, perché molto è cambiato ma non abbastanza; certe dinamiche si sono attenuate, ma non sono scomparse; alcune tutele sono state rafforzate ma non sono ancora strutturali; e troppe volte la cronaca ci restituisce episodi in cui il sistema continua a non essere abbastanza veloce, abbastanza protettivo, abbastanza consapevole delle conseguenze devastanti che un ritardo può avere sulla vita delle persone.

E allora, finché questa domanda non potrà ricevere un “sì” pieno, convinto, certo, il caso Sorrentino rimarrà un punto dolente della nostra storia civile, una ferita aperta che non chiede solo memoria ma cambiamento; un cambiamento che deve partire dalla cultura della denuncia, deve attraversare le istituzioni, deve arrivare nelle scuole, nei quartieri, nei tribunali, nei servizi sociali, negli uffici di chi decide, e deve trasformarsi in una certezza che ogni cittadino possa sentire sulla propria pelle: che dire la verità non è mai un pericolo, ma un diritto protetto e garantito.

Solo allora, forse, potremo dire di aver davvero imparato qualcosa da Matilde.
Fino ad allora, continuiamo a ripeterlo: non basta ricordare, bisogna cambiare. E bisogna farlo adesso.

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CARLA NAPOLITANO

Giurista, scrittrice. E' autrice ed appassionata narratrice del quotidiano capace di cogliere il lato insolito e a volte poetico della realtà. Con uno sguardo attento ed ironico esplora e narra con originalità gli aspetti più sorprendenti della vita di tutti i giorni.

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