La quarta edizione del Premio Nazionale Lea Garofalo, approdata quest’anno a Cremona, non è soltanto un omaggio alla memoria di una fimmina che ha sfidato la schifosa ’ndrangheta con una dignità più alta della paura.
È un segnale politico e civile, un gesto che parla chiaro: al Nord, in Lombardia, in quelle pianure apparentemente tranquille, le mafie non solo esistono. Prosperano. E chi dice il contrario mente o non ha letto nemmeno una riga dei documenti ufficiali.
Basterebbe sfogliare il resoconto stenografico dell’audizione del procuratore della Repubblica di Brescia, Tommaso Buonanno, ascoltato dalla Commissione Antimafia di Rosy Bindi l’11 marzo 2015. Un testo che non invecchia, perché, come accade troppo spesso in Italia, descrive un presente che è ancora presente.

Buonanno non usa giri di parole. Dice le cose come stanno, proprio come Lea quando decise che era arrivato il momento di rompere il cerchio.
«La ’ndrangheta è qui. E c’è da anni»
Nel suo intervento, il procuratore elenca nomi, famiglie, territori, operazioni. Fatti. A Cremona e Mantova, dice Buonanno, opera stabilmente la ’ndrangheta crotonese legata a Nicolino Grande Aracri, una delle consorterie mafiose più potenti e radicate d’Italia. Una presenza strutturata, persistente, profondamente inserita nel tessuto economico.
E non è tutto. Le mafie nel distretto bresciano e cremonese: infiltrano l’edilizia, acquisiscono imprese sane, alterano la concorrenza, drogano il mercato del lavoro, riciclano, estorcono, usurano, si alleano con professionisti compiacenti, trovano sponde nella pubblica amministrazione, quando capita (troppo spesso) che qualcuno si giri dall’altra parte.
Un quadro che, dieci anni dopo, non è affatto cambiato, come confermano arresti, indagini, processi, sequestri di beni e presenze criminali che riemergono inesorabilmente.
L’importanza del Premio Nazionale Lea Garofalo
Il Premio Lea Garofalo ha senso, forza, proprio dove la retorica vuole che “la mafia non esiste”.
Perché la Lombardia non è soltanto industrie, capitale produttivo: è anche un terreno fertile per chi sa muoversi nel grigio, per chi offre soldi facili a imprenditori in difficoltà, per chi compra silenzi e costruisce consenso.
Portare il nome di Lea Garofalo in queste terre significa rompere l’illusione dell’immunità, ricordare che il Nord non è un’isola felice, affermare che la cultura della legalità non è folklore ma resistenza, rimettere al centro i territori che “non fanno rumore”, quindi non fanno notizia.
Il Premio, con studenti, magistrati, testimoni, giornalisti, famiglie che non hanno mai smesso di chiedere verità, non è un gesto simbolico. È una presa di posizione. È ricordare che Lea è stata uccisa a Milano (il corpo distrutto, poi, in provincia di Monza), non a Crotone. Che ha subìto un tentativo di sequestro a Campobasso, in Molise, un altro territorio che per anni si è raccontato “puro”, “immune”, “tranquillo”. Una “isola felice”. Parole vuote, senza alcun significato.
Accendere i riflettori, non spegnerli.
Ecco perché il Premio Lea Garofalo deve continuare a essere itinerante, militante, scomodo. Perché la lotta alle mafie non vive di ricorrenze: vive di continuità, di voce, di luce. E luce significa riflettori puntati, domande scomode, attenzione pubblica, informazione che non fa sconti.
Cremona oggi, domani altrove. Finché questi territori non saranno davvero liberi, e non solo convinti di esserlo.
Perché la libertà non è un diritto acquisito: è una scelta da rinnovare ogni giorno.
Non siamo qui per essere “cauti”: siamo qui per dire la verità
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