Non c’è stato un giorno preciso in cui abbiamo perso qualcosa. Nessuna data da ricordare, nessuna legge clamorosa, nessun decreto letto nei telegiornali con tono solenne. È successo lentamente, mentre eravamo occupati a fare altro. Mentre lavoravamo, viaggiavamo, amavamo, ci annoiavamo. Mentre scorreva il dito sullo schermo. Ed è forse per questo che oggi facciamo così fatica a rendercene conto: non ci hanno tolto la libertà, l’abbiamo consegnata a rate, in cambio di comodità.
Google, Meta, Apple, Amazon, Microsoft non sono solo aziende tecnologiche. Sono ambienti di vita. Spazi in cui trascorriamo ore, a volte intere giornate. Sono diventati il luogo in cui pensiamo, ricordiamo, comunichiamo, prendiamo decisioni. Ci svegliamo con una sveglia prodotta da una multinazionale, lavoriamo su piattaforme di un’altra, comunichiamo tramite app di un’altra ancora. Ogni gesto è tracciato, ogni passaggio registrato, ogni abitudine trasformata in dato.
Il dato è la vera moneta del nostro tempo. Più dell’oro, più del petrolio. Perché il dato non racconta solo ciò che siamo stati, ma ciò che potremmo essere. Anticipa le nostre scelte, le nostre reazioni, le nostre emozioni. Sa quando siamo vulnerabili, quando siamo stanchi, quando siamo più facilmente influenzabili. E questo non riguarda solo chi compra un paio di scarpe online o guarda video fino a notte fonda. Riguarda politici, giornalisti, magistrati, dirigenti d’azienda, attivisti. Nessuno è davvero fuori da questo sistema.
Un telefono acceso è già una dichiarazione. Una posizione geografica. Una rete di contatti. Una cronologia. Non serve violare segreti di Stato quando è sufficiente incrociare informazioni. Chi frequenti, dove vai, cosa leggi, cosa condividi, cosa ignori. Le grandi piattaforme non hanno bisogno di sapere tutto: sanno abbastanza. E quel “abbastanza” è spesso molto più di quanto immaginiamo.
Ci hanno insegnato a pensare alla sorveglianza come qualcosa di rozzo, evidente, autoritario. Telecamere, microfoni, spie. Ma la sorveglianza contemporanea è elegante. Invisibile. Non ti osserva per punirti, ma per prevederti. Non ti ordina cosa fare, ti suggerisce cosa desiderare. È un potere che non reprime, ma orienta. E per questo è più difficile da riconoscere e ancora più difficile da combattere.
Meta conosce le dinamiche delle nostre relazioni meglio di noi. Sa quando un legame si raffredda, quando una rabbia cresce, quando una solitudine diventa cronica. Google non si limita a rispondere alle domande: decide quali domande sono rilevanti. Amazon costruisce una mappa delle nostre abitudini di consumo che racconta il nostro stile di vita meglio di una biografia. Apple e Microsoft custodiscono intere esistenze digitali, trasformando dispositivi personali in archivi permanenti.
E mentre tutto questo accade, continuiamo a raccontarci che siamo liberi perché possiamo scegliere. Ma che tipo di scelta è quella che avviene dentro un perimetro deciso da altri? Che libertà è quella che si esercita tra opzioni già filtrate, selezionate, suggerite? La vera perdita non è la privacy in senso astratto, ma l’imprevedibilità. La possibilità di essere contraddittori, opachi, non perfettamente leggibili.
Il problema diventa ancora più grave quando questa infrastruttura privata incrocia il potere pubblico. Quando dati raccolti per fini commerciali diventano strumenti di pressione, controllo, ricatto. Quando giornalisti e politici scoprono di essere osservati non perché sospettati di un reato, ma perché influenti. In quel momento la questione non è più tecnologica, ma democratica.
Chi controlla il flusso delle informazioni controlla la realtà. Decide quali temi emergono, quali indignazioni durano, quali storie vengono dimenticate. Non c’è censura esplicita, c’è saturazione. Non c’è silenzio, c’è rumore. E nel rumore, la verità fatica a farsi strada.
Ci hanno convinti che la privacy sia un capriccio individuale, una preoccupazione da paranoici. “Non ho nulla da nascondere”, diciamo. Ma la privacy non serve a nascondere, serve a respirare. Serve a pensare senza essere immediatamente misurati, classificati, giudicati. Senza spazi non osservati, la libertà si trasforma in una performance continua.
E forse la domanda più scomoda è un’altra: perché accettiamo tutto questo? Perché sappiamo, in fondo, che il prezzo da pagare è alto, eppure continuiamo. Forse perché il controllo non si presenta mai come una minaccia, ma come un servizio. È comodo, rapido, personalizzato. Ci risparmia fatica. Ci solleva dalla responsabilità di scegliere davvero.
Così diventiamo utenti perfetti: prevedibili, tracciabili, gestibili. Non prigionieri, ma nemmeno cittadini pienamente liberi. Abitiamo una zona grigia in cui il potere non ha bisogno di imporsi, perché siamo noi a collaborare spontaneamente.
La vera questione, allora, non è se la tecnologia sia buona o cattiva. È chi la governa. Con quali regole. Con quali limiti. E soprattutto chi controlla i controllori. Perché quando il potere diventa invisibile, diventa anche irresponsabile.
Forse non possiamo tornare indietro. Forse non vogliamo nemmeno farlo. Ma possiamo smettere di raccontarci che tutto questo sia neutro, inevitabile, naturale. Possiamo pretendere trasparenza, leggi, consapevolezza. Possiamo ricominciare a porci domande scomode, quelle che non trovano risposta in una ricerca veloce.
Perché la libertà non scompare all’improvviso. Si assottiglia. Si diluisce. Si perde mentre siamo occupati a guardare lo schermo. E quando ce ne accorgiamo, spesso, è già diventata un’opzione tra le tante, suggerita da un algoritmo che ci conosce fin troppo bene.





