Ci sono frasi che non colpiscono perché rivelano qualcosa di nuovo, ma perché dicono ad alta voce ciò che tutti sanno e nessuno vuole davvero affrontare. Le dichiarazioni di Andrea Crisanti sulle università italiane appartengono a questa categoria. Non sono uno scoop, non sono una scoperta improvvisa, non sono una verità emersa per caso. Sono una crepa che si allarga in un muro già fragile, costruito negli anni su equilibri precari, consuetudini opache, compromessi silenziosi.
Quando Crisanti afferma che in quarant’anni di carriera non ha mai visto un concorso universitario di cui non si sapesse in anticipo il vincitore, non sta parlando solo di concorsi. Sta parlando di un clima, di una percezione diffusa, di una sensazione che accompagna intere generazioni di studenti, dottorandi, ricercatori. Sta parlando di quella frase che prima o poi tutti sentono: “Non basta essere bravi”.
Ed è proprio qui che il discorso smette di essere tecnico e diventa politico, culturale, quasi esistenziale. Perché un’università che non garantisce l’idea stessa di possibilità è un’università che tradisce la sua funzione più profonda.
La reazione più frequente alle parole di Crisanti non è stata lo stupore, ma una forma di rassegnata conferma. “Lo sappiamo”, “È sempre stato così”, “Finalmente qualcuno lo dice”. Frasi che contengono, tutte insieme, sollievo e amarezza. Sollievo perché il non detto viene finalmente nominato. Amarezza perché arriva tardi, quando il danno è già stato fatto.
Il punto, allora, non è stabilire se Crisanti abbia generalizzato, se abbia esagerato nei toni, se abbia colpito anche chi non lo meritava. Il punto è un altro: perché un sistema intero ha potuto convivere così a lungo con questa percezione senza sentire l’urgenza di correggersi?
Forse perché quella percezione non era un incidente, ma un elemento strutturale. Un rumore di fondo che si impara a ignorare, come il traffico sotto casa.
Nel mondo accademico italiano il silenzio non è solo una scelta individuale. È una regola non scritta. Chi entra lo capisce presto, parlare costa. Esporsi isola. Denunciare chiude porte che difficilmente si riaprono. La carriera universitaria è lunga, fragile, spesso precaria per anni. Richiede pazienza, adattamento, capacità di leggere gli equilibri. In questo contesto, il silenzio diventa una strategia di sopravvivenza.
Non è vigliaccheria, è realismo. È la consapevolezza che il sistema raramente protegge chi lo mette in discussione. E così si crea un paradosso: tutti sanno, ma nessuno parla. O meglio, si parla sottovoce, tra pari, lontano dai riflettori, mai nei luoghi dove il discorso potrebbe produrre cambiamento.
Quando qualcuno parla apertamente, lo fa quasi sempre da una posizione di forza o di uscita. Chi è vicino alla vetta o chi ha già deciso di andarsene. Questo dovrebbe farci riflettere più delle singole accuse: un sistema sano non teme la critica interna. Un sistema fragile, sì.
La polemica esplode attorno ad un concorso, ad un cognome, ad un legame familiare. Ma ridurre tutto a quel caso significa non voler vedere il quadro più grande. Perché quel caso funziona come simbolo, come catalizzatore. Non perché rappresenti tutti, ma perché li ricorda.
È il simbolo di un meccanismo che, anche quando non è illegale, appare profondamente ingiusto. È il simbolo di bandi scritti con criteri talmente specifici da sembrare ritratti. Di percorsi di carriera che seguono linee genealogiche, accademiche, relazionali. Di un’idea di università che somiglia più a una successione che a una selezione.
E qui si innesta un’altra frattura pericolosa: la perdita di fiducia. Perché quando le regole non sono percepite come neutrali, anche il merito autentico viene messo in discussione. Anche chi vince onestamente viene guardato con sospetto. È un danno enorme, che avvelena l’ambiente e scoraggia chi guarda da fuori.
La domanda ritorna, insistente: perché ora?
Perché non prima?
La risposta più onesta è forse la più scomoda: perché prima conveniva a troppi che nulla cambiasse. Perché il sistema, pur con tutte le sue storture, garantiva stabilità a chi era dentro. Perché la mancanza di trasparenza era il prezzo da pagare per una pace apparente.
E poi perché l’Italia ha una relazione complicata con la verità strutturale. Preferisce le emergenze alle riforme, gli scandali alle trasformazioni lente. Finché il problema resta diffuso, sistemico, senza un volto preciso, viene tollerato. Quando esplode in un caso riconoscibile, allora diventa improvvisamente intollerabile.
Ma è un meccanismo ipocrita: ci indigniamo per l’episodio, non per il sistema che lo rende possibile.
L’università non è solo un luogo di lavoro. È un’istituzione che forma classi dirigenti, produce sapere, orienta il futuro. Quando perde credibilità, il danno non si misura solo in carriere mancate, ma in immaginari spezzati. Giovani che smettono di credere che l’impegno serva. Ricercatori che rinunciano a restare. Studenti che interiorizzano l’idea che il talento debba sempre chiedere permesso.
Le parole di Crisanti arrivano in un momento storico in cui il Paese è già attraversato da una profonda sfiducia verso le istituzioni. Ignorarle, minimizzarle o ridurle a una polemica personale sarebbe un errore grave. Perché parlano a qualcosa di più profondo: la crisi di legittimità.
C’è però un rischio opposto, altrettanto pericoloso: che questa denuncia diventi un alibi. Che basti dire “finalmente se ne parla” per sentirsi assolti. Parlare è necessario ma non è sufficiente. Senza trasparenza reale, senza criteri leggibili, senza controlli indipendenti, senza una mobilità vera, le parole restano parole.
E allora la domanda finale non riguarda più Crisanti. Riguarda tutti noi: siamo disposti ad accettare che il cambiamento rompa equilibri, privilegi, carriere?
Oppure preferiamo continuare a indignarci a intermittenza, salvo poi tornare alla normalità?
Forse il punto non è chiedersi se sia giusto parlare ora o se si sarebbe dovuto parlare prima. Forse il punto è capire quanto ci costerà non fare nulla adesso.
Ogni sistema che rifiuta di guardarsi allo specchio finisce per implodere. Lentamente, senza rumore, perdendo pezzi.
Le parole di Crisanti non sono una sentenza. Sono una domanda aperta.
E come tutte le domande vere, fanno paura perché non garantiscono risposte comode.




