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La cacciata dei nazi-fascisti

by Redazione Web
17 Aprile 2020
in Speciale 25 Aprile
Reading Time: 13 mins read
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NAPOLI. Il 12 settembre il colonnello tedesco Scholl assume il «comando assoluto» con un proclama in cui impone lo stato d'assedio, il coprifuoco e la consegna delle armi. I nazisti a Napoli saccheggiano, distruggono: la loro furia, che travolge soldati sbandati, e cittadini inermi, raggiunge il culmine nell'incendio della Università.

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Gli edifici vengono invasi e dati alle fiamme, la popolazione rastrellata per le vie è costretta ad assistete in ginocchio all'esecuzione di un marinaio sulla soglia dell'Università; una lunga colonna di deportati viene avviata verso Aversa, quattordici carabinieri, rei d'aver resistito al palazzo delle Poste, vengono fucilati nel corso della tragica marcia.

È dall'Università che s'inizia la distruzione metodica della città che secondo gli ordini di Hitler avrebbe dovuto essere ridotta «in fango e cenere»; e la scelta del punto di partenza del piano terroristico non è, probabilmente, casuale: era infatti nello stesso Ateneo che dopo il 2 luglio avevano risuonato più alte le parole della libertà, come nel proclama del l° settembre con cui il rettore magnifico Adolfo Omodeo ricordava ai giovani che, «i loro maestri erano della generazione del Carso e del Piave e comprendevano il loro affanno». S'inizia poi la sistematica distruzione delle zone industriali, del grande stabilimento ILVA di Bagnoli, mentre tutta la città è messa a sacco.

Napoli è ridotta alla disperazione per le condizioni selvagge in cui è stata ridotta Napoli, priva di cibo e d'acqua, sgombrata a viva forza e distrutta nei quartieri verso il porto (nello spazio di ventiquattro ore, dal 23 al 24 settembre, oltre 200000 persone restarono senza tetto). Un antefatto delle Quattro Giornate di Napoli: l'abbandono da parte dei nazisti delle caserme e dei depositi militari contenenti ancora piccole quantità di armi e munizioni.

Probabilmente i tedeschi ritennero che il suddetto materiale bellico non avesse importanza, né sarebbe stato utilizzato dalla popolazione contro di loro dopo gli infiniti esempi di terrore, dopo la deportazione di ottomila giovani come misura di rappresaglia per il mancato rispetto del bando Scholl.

Nella notte tra il 27 e il 28 settembre la popolazione si alternò in un incessante via vai fra le caserme e le abitazioni, le donne in cerca di viveri e d'indumenti, gli uomini in cerca d'armi e munizioni. Molte armi erano state già nascoste e conservate gelosamente nei giorni dell'armistizio: ora la determinazione di usarle, di cercare dovunque nuove scorte di esse, di scendere finalmente, «in istrada» era sbocciata improvvisa come l'unica possibile.

Il popolo aveva «fatto la sua scelta», ma in senso opposto a quello richiesto dal proclama fascista. Già nel pomeriggio e nella sera del 27, sollecitati, sembra, dalla falsa notizia dell'arrivo degli Inglesi a Pozzuoli e a Bagnoli, si erano avuti i primi rapidi scontri, le prime scaramucce in più punti della città, episodi in apparenza casuali, certamente non collegati l'uno con l'altro (un gruppo di cittadini che reagisce al saccheggio della Rinascente, un altro gruppo che liberò a piazza Dante dei giovani razziati, due guastatori tedeschi inseguiti a furia di popolo al Vomero), ma altrettanto certamente rivelatori d'uno stato d'animo ormai comune.

All'alba del 28 settembre la rivolta esplose fulminea al Vomero e da Chiaia a piazza Nazionale. Non vi furono collegamenti fra un centro e l'altro dell'incendio, ma l'insurrezione cominciò ad ardere in decine di punti diversi.

Il 28 settembre è la giornata dell'ardimento popolare sfrenato e travolgente: tra le decine e decine di combattimenti, tanti giovinetti.

Il dodicenne Gennaro Capuozzo funziona da servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa presa sotto il fuoco di carri armati tedeschi, finché cade sfracellato, colpito in pieno da una granata sul posto di combattimento.

Filippo Illuminato e Pasquale Formisano, l'uno di tredici, l'altro di diciassette anni corrono incontro a due autoblinde che da via Chiaia cercano d'imboccare via Roma. «Lo scontro fu assai breve, ma impressionante; vi fu chi vide i due intrepidi giovanetti avanzare decisamente sotto le impetuose raffiche di mitragliatrice fino a quando caddero esanimi a pochi passi dalle autoblinde, nell'atto di scagliare ancora una bomba».

Tutto si è svolto senza un piano, senza collegamenti fra i vari quartieri o gruppi d'insorti anche se talvolta l'azione degli uni ha contribuito al successo di quella degli altri. Esempio maggiore di questa naturale confluenza degli sforzi insurrezionali l'azione svolta da un gruppo di patrioti che a Moiarello di Capodimonte s'impossessano di una batteria da 37/54 e riescono a bloccare per tutta la giornata il tentativo di una colonna di carri Tigre e di autoblinde tedesche di scendere da Capodichino sulla città; probabilmente, se quel tentativo fosse riuscito, la lotta popolare avrebbe avuto un corso diverso o comunque più sfavorevole e cruento.

La rivolta popolare comincia ad organizzarsi, a individuare alcuni obiettivi da conseguire nella ininterrotta ondata del combattimento a viso aperto. Sorge la prima barricata a piazza Nazionale, vengono costituite postazioni d'arme presso il Museo, si chiarisce l'indirizzo principale sorto spontaneamente: impedire che il tedesco attraversi la città verso nord nel corso del ripiegamento e gettare cosi il disordine e il panico nelle sue truppe incalzate da vicino dagli alleati.

Nel corso della battaglia si determina un obiettivo principale: la conquista del «centro» del quartiere costringendo i tedeschi a ripiegare da via Luca Giordano che lo attraversa diagonalmente. L'attacco viene eseguito a squadre e a balzi successivi come in una manovra di guerra regolare. Poi, dopo la furia popolare, anche la furia degli elementi si abbatte sul Vomero: un violento uragano fa sospendere le operazioni e nella notte il nemico perlustra le strade alla caccia degli insorti dileguatisi con le prime ombre.

Il 29 segna il culmine dell'insurrezione napoletana e, mentre prosegue il generoso afflusso dei giovani e degli adolescenti fra le file degli insorti (muore sotto il fuoco d'un'autoblinda il non ancora ventenne Mario Menichini), affiorano i primi elementi organizzativi. Al Vomero si costituisce il Comando partigiano per iniziativa di Antonino Tarsia.

In ogni rione emerge nel corso della lotta una figura di «capo-popolo» intorno a cui gravitano i gruppi degli insorti: a Chiaia si fa luce Stefano Fadda, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Ovunque gli scontri diventano più intensi e persistenti: nel solo settore Vincenzo Cuoco i patrioti perdono 12 morti e 32 feriti.

A Capodimonte è strenuamente difeso dai partigiani del rione l'unico serbatoio rimasto intatto dall'immane distruzione ed assicurato, in seguito al successo dell'azione, il rifornimento dell'acqua potabile ad alcuni rioni anco­ra per due o tre giorni.

L'episodio risolutivo si verifica infine al Vomero: il comandante del presidio maggiore Sakau chiede di trattare la resa. Accompagnato con bandiera bianca presso il Comando superiore germanico al Corso, lo Scholl, edotto della situazione, è costretto ad ordinare l'evacuazione del campo sportivo e la restituzione dei 47 ostaggi detenutivi, purché i partigiani garantiscano l'immunità al presidio tedesco. È, in sostanza, una capitolazione, la più grave umiliazione per lo Scholl che aveva creduto d'imporre il suo dominio alla città e che ora chiede salva la vita per i suoi soldati a un gruppo di «straccioni» ribelli.

Il 30, pur essendo stata evacuata in massima parte la città dai tedeschi, continuano i combattimenti. Il nemico si lascia dietro la lugubre scia delle rappresaglie: gruppi di guastatori tedeschi, attardatisi nella ritirata, massacrano alcuni giovani in località Trombino.

Alla Pigna, nella masseria Pezzalunga, s'ingaggia l'ultimo combattimento delle Quattro Giornate, con violenti corpo a corpo fra i patrioti e i tedeschi, mentre nella città risuonano ancora le fucilate in via Duomo, via Settembrini, piazza San Francesco.

Ancora il l° ottobre i tedeschi attuano l'ultima rappresaglia e aprono un violento fuoco sulla città con un gruppo di bombarde piazzate nel bosco di Capodimonte, portando lo sterminio fra la popolazione sino quasi a mezzogiorno: un'ora prima dell'entrata dei primi carri armati angloamericani nella città liberata.

Costretti alla fuga i nazisti sfogano la rabbia per il colpo ricevuto: distruggono le più preziose memorie di quel popolo che non ha piegato la testa sotto i suoi ordini, consumando un’atroce vendetta.

A San Paolo Belsito, presso Nola, i tedeschi danno fuoco all'Archivio Storico di Napoli, cioè alla maggior fonte per la storia del Mezzogiorno dal Medioevo in poi.

Il bilancio dell'insurrezione napoletana: 152 combattenti caduti; 140 caduti civili, 162 feriti, 19 caduti ignoti (l'elenco delle perdite continua ad accrescersi anche dopo la liberazione della città: nel pomeriggio del 7 ottobre il palazzo delle Poste, appena riattivato, saltò in aria a causa delle mine lasciatevi dai tedeschi, provocando la morte di molti cittadini. Sulle barricate s'incontrarono i popolani generosi, le umili donne che offrivano cestini di bombe, come la «Lenuccia» (Maddalena Cerasuolo) e gli esponenti della piccola borghesia meridionale: un Tarsia insegnante a riposo, un Fadda medicochirurgo, un Murolo impiegato.

Parteciparono alla lotta gli studenti del liceo Sannazzaro al Vomero, gli scugnizzi dei quartieri popolari, gli intellettuali come Alfredo Paruta che iniziò il l° ottobre la pubblicazione del giornale «Le barricate»; come gli operai delle fabbriche napoletane. E certo nell'ondata della collera popolare si erano inseriti – qua e là – gli elementi antifascisti consapevoli.

Ma l'insurrezione rimase fino all'ultimo un fatto «spontaneo», senza cioè che potessero prevalere in essa gli elementi d'una guida unitaria e anche una chiara coscienza politica dell'accaduto.

Le Quattro Giornate di Napoli saranno sempre presenti nel ricordo di coloro che militeranno nelle file della Resistenza poiché avevano dimostrato la «possibilità» dell'insurrezione cittadina.

«Dopo Napoli la parola d'ordine dell'insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu d'allora la direttiva di marcia per la parte più audace della Resistenza italiana» (Luigi Longo: dopo l'8 settembre del '43, diede vita alle Brigate Garibaldi. Vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà, stretto collaboratore di Parri, fu tra i principali organizzatori dell'insurrezione nel Nord Italia dell'aprile del '45).

 

“Storia della Resistenza italiana – 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945”, Roberto Battaglia, Einaudi 1964

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2020-04-17 15:58:18

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