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Trattativa Stato-mafia, il Pg: «Confermate le condanne»

by Serena Verrecchia
8 Giugno 2021
in Speciale Trattative
Reading Time: 10 mins read
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Confermare le condanne. Per tutti gli imputati. È questo che hanno chiesto i sostituti procuratori Giuseppe Fici e Sergio Barbiera a conclusione della requisitoria della Procura generale al processo d'Appello sulla Trattativa Stato-mafia.

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“Questa procura generale chiede a codesta Corte d' Assise di Appello di rigettare gli atti di gravame e di confermare la sentenza impugnata nei confronti di tutti gli imputati. Una sentenza complessa e molto ben argomentata, il cui principale pregio è stato quello di offrire un quadro di insieme per decine di vicende che da anni suscitano interrogativi e sconcerto” e che, se esaminate congiuntamente, restituiscono “un complesso ma intellegibile mosaico ed offrono quindi, non tutte, ma tante risposte”. E il riferimento è alla mancata perquisizione del covo di Riina, all'arresto di Balduccio Di Maggio e al comportamento ambiguo del generale Delfino, ai fatti di Mezzojuso e alla mancata cattura di Provenzano, alla vicenda di Terme Vigliatore e alla fuga di Nitto Santapaola, alle sollecitazioni fatte dai servizi al boss di Alcamo Vincenzo Milazzo e all'omicidio di Antonella Bonomo, fino ad arrivare all'”incredibile vicenda umana di Pietro Riggio” e alla strana perquisizione successiva all'arresto di Giovanni Napoli.

Un quadro inquietante, che va letto nel complesso e che testimonia di una storia che “non riesce a leggere soltanto chi non sa leggere o non vuole leggere”. E che, però, “è soltanto un capitolo di una storia più complessa, che è quella dei misteri della nostra Repubblica”.

Secondo l'accusa, la sentenza di primo grado “ci racconta che c'è stata una trattativa con i vertici di Cosa Nostra avviata da uomini dello Stato. Gli imputati Subranni, Mori e De Donno, che si sono fatti carico, autorizzati da chi non è dato comprendere - certamente non dagli organi costituzionalmente preposti - di ricercare un'intesa con il contropotere criminale, di individuare un nuovo punto di equilibrio tra potere statale e potere mafioso, posto che era venuto meno quello che per decenni aveva garantito una convivenza tra la mafia e lo Stato, quella sorta di coabitazione – come l' ha definita il teste Luciano Violante. E la sentenza impugnata ci racconta altresì che questa trattativa, una volta avviata, ha innescato dinamiche di ancora maggiore violenza e di prevaricazione, alla quale sono scampati coloro che in un primo momento erano stati individuati come politici traditori”, primo tra tutti Calogero Mannino (assolto in via definitiva col rito abbreviato), che fu prima condannato a morte da Riina e poi vide revocarsi la stessa sentenza.

“Erano gli stessi giorni nei quali il boss corleonese riferiva compiaciuto ai suoi sottoposti sodali assassini che 'quelli dello Stato si erano fatti sotto".

Poi succede che “i trattativisti sul fronte statale puntarono sull'ala moderata e non stragista di Cosa Nostra”, così mentre Riina, Brusca, Bagarella, i fratelli Graviano e gli irriducibili del fronte stragista vennero catturati, “a Bernardo Provenzano, evidentemente in adempimento degli impegni assunti, venne assicurata una latitanza protetta, che si è poi protratta per altri dodici lunghi anni, nel corso dei quali lo zio ha governato con i pizzini il popolo di Cosa nostra”. E se la latitanza di Provenzano a un certo punto si è conclusa, quella di Matteo Messina Denaro è ancora attuale.

Fici ha poi sottolineato come “le stesse menti raffinatissime che stavano nell'ombra e che governavano gli eventi muovendo le fila dei loro pupi, hanno individuato i nuovi referenti sul fronte politico istituzionale e così è nata Forza Italia”. Sono fatti di cui pare non si possa parlare, ma secondo la Procura, che ha chiesto la conferma della condanna anche per Marcello Dell'Utri, “i fatti rimasti accertati non possono essere nascosti e neppure possono essere taciuti per non urtare la sensibilità di qualcuno”, perché “le verità scomode devono essere raccontate ed accettate”.

Tra i protagonisti di “questo miracolo elettorale”, di questa rivoluzione “per certi versi gattopardesca”, un ruolo decisivo “lo ha avuto l'odierno imputato Marcello Dell'Utri” che “ha curato la tessitura di relazioni e poi la propaganda con le realtà criminali di Cosa Nostra e della 'Ndrangheta, alle quali ha evidentemente dovuto fare promesse implicite o esplicite, tradottesi in richieste che poi ha passato al nuovo presidente del Consiglio”, Silvio Berlusconi.

Il quale, chiamato dalla difesa di Dell'Utri a testimoniare in questo processo, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Comportamento, specifica il procuratore, “assolutamente legittimo”, che però ha lasciato tutti perplessi “perché da un ex Presidente del Consiglio dei ministri e da un uomo che ha guidato per quasi un decennio le sorti del Paese, qualcosa di diverso ci si poteva legittimamente attendere”. Se è vero, come sostiene la difesa di Dell'Utri, che l'ex braccio destro di Berlusconi non ha veicolato nessuna richiesta mafiosa all'amico e poi Presidente del Consiglio, “perché questi non è venuto a riferirlo in codesta aula?”.

A fronte delle risultanze processuali, è provato “al di là di ogni ragionevole dubbio” che Dell'Utri abbia sostituito Salvo Lima come uomo di confine tra Cosa nostra e lo Stato e effettivamente “il Dell'Utri, così come contestato, ha trasmesso all' amico Presidente del Consiglio dei ministri le minacciose richieste del popolo della criminalità organizzata”.

Così come per Dell'Utri, condannato in primo grado a 12 anni, vanno confermate le condanne anche per gli altri imputati, mafiosi e ufficiali dei Carabinieri. La Procura, nell'ultima parte della requisitoria, si è soffermata anche sul profilo del generale Subranni, sia in relazione al depistaggio delle indagini sulla morte di Peppino Impastato, sia in relazione alla vicenda Mannino. La difesa dell'imputato ha provato a separare la sua vicenda processuale da quella di Mori e De Donno, ma secondo Fici, “è ben difficile ipotizzare che alcune omissioni potessero essere fatte all'insaputa di chi era al vertice di una filiera di comando”.

Ben sviscerata è stata anche la vicenda del rapporto Mafia-appalti, ritenuta poco significativa dai giudici di primo grado e invece giudicata particolarmente rilevante da quelli del rito abbreviato a Mannino, che hanno sostenuto l'inesistenza della doppia refertazione. Esistono due dossier mafia-appalti: uno consegnato a Falcone il 20 febbraio 1991 (prima che andasse a Roma), in cui non compaiono i nomi dei politici (Mannino, Lima e Rino Nicolosi); e uno del 5 settembre 1992, questa volta con i nomi dei politici. Sebbene i carabinieri di Subranni fossero incappati durante le indagini in quei nomi, per 19 mesi li tennero nascosti, salvo poi tirare fuori le bobine quando la notizia era ormai trapelata su alcuni giornali e il clima politico, dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio e le indagini su Tangentoli, era mutato.

Nessuna intenzione di riscrivere la sentenza Mannino, precisano i Procuratori, ma sulla vicenda (che la Corte di primo grado ha giudicato non sufficiente come tesi atta a dimostrare l'accelerazione della strage di via D'Amelio) va fatta chiarezza.

Infine, Fici ha lasciato alla Corte la valutazione su alcune questioni che potrebbero essere “oggetto di approfondimento”, a partire dalla doppia gravidanza delle compagne dei fratelli Graviano, detenuti al regime di 41bis, per finire alla vicenda Napoli e alla gestione anomala della fonte Riggio: “il convincimento di questo ufficio requirente di secondo grado è che non sarebbe giusto scrivere la parola fine su questioni non ancora definitivamente accertate per la loro esatta consistenza”.

Il processo è stato infine rinviato a lunedì 14 giugno, quando la parola passerà alle difese. Alla prossima udienza sarà il turno di Luca Cianferoni, legale di Leoluca Bagarella.

 

WORDNEWS.IT © Riproduzione vietata

 

LEGGI ANCHE: 

– SPECIALE TRATTATIVE

 

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