Finalmente, dopo lunghi annunci e incertezze, sono arrivati i dazi trumpiani al 30%. Ma cosa c’è davvero dietro questa mossa? Una semplice strategia elettorale o il segnale evidente del fallimento della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta?
Per capirlo, dobbiamo fare un salto indietro nella storia economica. Dopo la Grande Depressione del 1929, gli Stati Uniti promossero un modello basato sul keynesismo, cioè un intervento statale capace di redistribuire la ricchezza e stimolare la domanda interna. Questo modello, sostenuto dagli accordi di Bretton Woods, fu anche alla base della diffusione di ordinamenti democratici nei Paesi occidentali.
Ma tutto cambia nel 1973, con la crisi petrolifera. Gli USA abbandonano i vincoli di Bretton Woods e liberalizzano i movimenti di capitale. È l’inizio dell’era neoliberista, della delocalizzazione selvaggia, della finanziarizzazione dell’economia, dove si produce denaro dal denaro, e la democrazia diventa superflua.
Per mantenere il dominio globale, gli Stati Uniti impongono il petrodollaro: tutte le transazioni energetiche devono avvenire in dollari. Così facendo, controllano i mercati internazionali e alimentano un sistema profondamente squilibrato: ricchezza concentrata, povertà diffusa, precarietà crescente, specialmente nelle classi medie occidentali.
Questa globalizzazione imposta sta ora mostrando tutte le sue crepe. L’America profonda, quella più colpita dalla deindustrializzazione e dall’aumento delle disuguaglianze, ha perso fiducia nel sistema. Ed è proprio da questo malcontento che nascono i nuovi dazi USA: non per proteggere il mondo, ma per riportare le produzioni in patria e scaricare sugli altri Paesi i costi dell’enorme debito pubblico americano.
Noi europei, italiani in primis, sentiremo presto l’effetto di questa scelta. Anche perché l’Unione Europea, che dovrebbe essere un attore geopolitico forte, si dimostra invece fragile e subalterna. Non riesce a imporsi, non cerca mercati alternativi, forse perché bloccata dalla presenza di decine di basi militari USA.
I segnali sono chiari: l’attuale sistema economico globale genera instabilità, guerre, disuguaglianze. Gli Stati Uniti, nel tentativo di frenare il declino, alimentano conflitti, come quello tra Russia e Ucraina, e appoggiano apertamente crimini come il genocidio a Gaza. È il sintomo di una profonda debolezza strategica.
La verità è che serve un nuovo inizio. Serve una nuova Bretton Woods, un accordo globale per ridefinire i cicli economici, tutelare l’ambiente, redistribuire la ricchezza e fondare tutto su nuovi valori di giustizia e cooperazione, non su guerra, debito e dominio.



