C’è qualcosa di grottesco, quasi osceno, in ciò che è accaduto ieri. Una targa. Un riconoscimento. Un gesto solenne – almeno nelle intenzioni – conferito con tanto di foto, sorrisi e comunicati stampa. Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio italiano, ha ricevuto una targa per il “coraggio dimostrato nel sostenere Israele”. Proprio così: coraggio. Non diplomazia, non dialogo, non iniziativa politica. No, “coraggio”. Una parola che, in altri tempi, indicava chi salva vite, chi denuncia soprusi, chi si oppone alle guerre, non chi le accarezza con complicità mimetica.
Il paradosso, o forse il cinismo strutturale della scena, sta nel tempismo: mentre la targa veniva consegnata, a Gaza si consumava l’ennesimo massacro di civili. Un attacco a Khan Yunis – una delle aree più martoriate della Striscia – colpiva nuovamente donne, bambini, famiglie. Le stime parlano di decine di morti. Ma ormai i numeri sono diventati una cronaca muta, una litania che non indigna più. Forse perché il dolore ha smesso di fare audience. Forse perché è diventato “collaterale”.
E allora viene da chiedersi: che cos’è il coraggio oggi? Viviamo in un’epoca dove i termini si ribaltano come in un romanzo distopico. La pace è un segno di debolezza. Il dissenso è un attentato alla libertà. L’empatia è bollata come tradimento. E il “coraggio”, quel valore alto e raro, diventa una medaglietta da appuntare sul petto di chi alimenta un conflitto invece di lavorare per farlo cessare.
Matteo Salvini non è nuovo a gesti teatrali. La sua carriera politica è un collage di provocazioni, slogan, divise indossate con spensierato disprezzo per la complessità. Ma qui si è superato un confine simbolico. Perché non si tratta più solo di una posizione ideologica. Ma di una scelta morale. Premiare qualcuno per la fedeltà cieca a uno Stato che, in questo preciso momento storico, è sotto inchiesta morale e politica da parte dell’opinione pubblica mondiale – e in alcuni casi persino della Corte Internazionale di Giustizia – è un atto che merita almeno una riflessione. Anzi: una reazione.
Ma la politica italiana non ha fiatato. Nessuna indignazione reale. Nessun moto di responsabilità. Solo i soliti distinguo, le solite timide note a piè pagina di qualche oppositore isolato. Perché oggi, per non perdere consensi, la parola “Palestina” è diventata impronunciabile. E chi la pronuncia, rischia la gogna.
Eppure la domanda resta: davvero dobbiamo accettare questa narrazione rovesciata? Davvero dobbiamo credere che sostenere incondizionatamente un governo – quello di Netanyahu – che bombarda ospedali, che ha causato migliaia di morti civili, che ha isolato e affamato una popolazione intera, sia un gesto di coraggio?
O forse è più coraggioso chi, pur rischiando l’isolamento politico, continua a parlare di pace, a chiedere giustizia, a ricordare che nessun attacco terroristico – neanche il più efferato – può giustificare un genocidio a puntate?
Il premio a Salvini, in questo contesto, suona come un insulto all’intelligenza. Come una truffa semantica. Come se ci dicessero: non credete ai vostri occhi, non credete ai bambini morti, credete a noi. È l’arte dell’inversione morale. Della manipolazione emotiva.
Il punto, però, è che la targa non è solo un errore. È un messaggio. È l’annuncio che, per questa classe dirigente, non conta più la realtà, ma la sua rappresentazione. Non contano più i corpi a terra, ma le strette di mano. Non conta più la storia, ma il suo uso propagandistico.
Siamo dentro un’epoca che premia i simboli vuoti e ignora le tragedie vere. Un mondo dove le vittime non valgono tutte allo stesso modo. Dove si costruisce il coraggio con la plastica, mentre la carne brucia. Dove chi governa fa politica estera con i selfie.
Non c’è nulla di coraggioso in questa targa. C’è solo conformismo, calcolo, e quella fame di visibilità che ormai ha sostituito ogni idea di responsabilità. Il coraggio, quello vero, oggi sta altrove. Sta in chi ancora riesce a indignarsi. Sta in chi si ostina a raccontare la verità anche quando è scomoda. Sta in chi rifiuta l’applauso facile per stare dalla parte dell’umanità. Anche quando costa.
E allora, se proprio dobbiamo consegnare delle targhe, cominciamo da lì.



