Domanda semplice, risposta scomoda: a cosa serve riversare sempre più denaro in armi quando viviamo già seduti su un arsenale capace di cancellare la civiltà? Hiroshima e Nagasaki restano l’unico impiego bellico dell’atomica: due lampi che hanno bruciato in pochi secondi decine di migliaia di vite e condannato molte altre a una lunga agonia. Oggi le testate “tattiche” sono più precise, non meno apocalittiche. Bastano poche decine di ordigni, non migliaia, per rendere inabitabile il nostro domani.
Nel frattempo la spesa militare globale sale, sale ancora. Si invocano percentuali sempre più alte del PIL, si aprono nuove linee di produzione, si riempiono i comunicati di parole come “deterrenza”, “resilienza”, “modernizzazione”. Tradotto: un enorme mercato per i fabbricanti di morte, un ecosistema di lobbying che spinge l’opinione pubblica verso l’idea che la guerra sia “possibile”, quasi fisiologica. Gaza, la guerra russo-ucraina e le decine di conflitti dimenticati alimentano questa macchina come benzina sul fuoco.
Con l’atomica in circolazione, parlare di “vittoria” è un ossimoro. Serve un cambio di paradigma: spostare il baricentro da una crescita cieca a una economia della vita che metta al centro la salvaguardia del sistema Terra. Non è buonismo: è realismo di specie.
Che fare, subito (e sul serio)
- Riconversione industriale: trasformare capacità e filiere dual-use verso energia, infrastrutture critiche, sanità, adattamento climatico. Un posto di lavoro salvato in fabbrica vale quanto un missile non prodotto.
- Stop ai sussidi impliciti alla guerra: trasparenza totale su appalti e offset, tracciabilità dell’export di armi, controlli parlamentari veri, non passerelle.
- Trattati e diritto: rafforzare NPT, spingere sul TPNW (bando delle armi nucleari), rilanciare i negoziati su controllo degli armamenti convenzionali e cyber.
- Sicurezza umana come bussola: investire in acqua, cibo, sanità, scuola, protezione civile, diplomazia. Il futuro non si difende con un bilancio armato, ma con un bilancio giusto.
- Cultura e informazione: spegnere la propaganda bellicista e riaccendere la memoria. Riguardare Hiroshima non per compatirci, ma per ricordare fin dove può spingersi l’umano quando abdica alla ragione.
“Investire in morte” è l’atto finale di un neoliberismo decadente che scambia fatturati per futuro. La scelta è binaria: continuare a ingrassare l’apparato che produce minaccia, o riprogettare produzione e consumo in funzione della vita. Non è pacifismo ingenuo: è l’unica politica industriale che non ci lascia macerie.