Riano, macchia della Quartarella, mattina del 16 agosto 1924. In una fossa scavata in fretta riaffiora un corpo piegato, già in avanzata decomposizione. Lo individua Ovidio Caratelli, brigadiere dei Carabinieri in licenza, figlio del guardiano della tenuta Boncompagni. È Giacomo Matteotti.
In quel momento l’Italia, che da due mesi si aggrappa a sussurri, smentite e depistaggi, si ritrova davanti la cosa che nessuna propaganda può neutralizzare: un cadavere. Il delitto politico non è più un’ipotesi. È materia, odore, terra smossa. È prova.
Quattro giorni prima, 12 agosto, un cantoniere aveva consegnato ai Carabinieri una giacca insanguinata trovata lungo la Flaminia. Il 18 agosto l’identificazione formale della salma: i denti, non gli slogan, dicono chi è l’uomo sotto quel telo. Il 19 un treno notturno parte verso Fratta Polesine: viaggio imposto dal governo, per evitare cortei e sguardi. Velia Matteotti, la vedova, mette un confine al lutto: chiede che nessuna camicia nera si presenti davanti al feretro, né sul convoglio né al funerale. È un atto di dignità e di accusa.
Per capire perché oggi – 16 agosto 2025 – questo anniversario pesa ancora, bisogna tornare all’inizio. 10 giugno 1924, Lungotevere Arnaldo da Brescia, Roma. Matteotti esce di casa, diretto a Montecitorio. Una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini lo blocca e lo trascina su un’auto “elegante, chiusa”. Da settimane il deputato socialista denuncia brogli elettorali, violenze squadriste, intimidazioni che hanno infestato la campagna per il voto del 6 aprile. E, secondo molti storici, tocca con mano un nervo scoperto: la corruzione del potere. In quell’abitacolo, tra pugni e coltelli, la democrazia italiana subisce un colpo che non assorbirà più.
Le indagini si muovono a scatti, mentre il governo tenta di contenere lo scandalo. Saltano alcune teste (da De Bono al giro di Rossi e Finzi), ma la macchina dell’insabbiamento lavora. Nel Paese, l’orrore smuove l’opinione pubblica e parte la secessione dell’Aventino: i deputati dell’opposizione si sottraggono all’aula per delegittimare il governo. È l’ultima illusione legale prima del baratro. Il 3 gennaio 1925 Benito Mussolini si presenta alla Camera e pronuncia la formula che consegna il Paese alla verità più nuda: “responsabilità politica, morale e storica” del clima in cui l’assassinio è maturato. Un atto di forza. Seguono le leggi “fascistissime” (1925-1926), la cancellazione dell’opposizione, la normalizzazione dell’arbitrio. L’Italia passa dalla violenza tollerata alla dittatura proclamata.
Per Matteotti non fu la prima volta. Ferrarese di nascita politica, aveva conosciuto il manganello già nel 1921: assedi, aggressioni, sequestri, la madre insultata a Fratta, la moglie Velia cacciata a Varazze. In Parlamento, lui continuava a fare la cosa più semplice e più pericolosa: contare i fatti, denunciare i nomi, accusare le complicità. Ciò che per la democrazia è ossigeno, per il potere violento è benzina.
E allora perché ricordare oggi? Perché quel corpo ritrovato nella sterpaglia non parla soltanto di 1924. Parla di come nascono i regimi: una somma di piccoli strappi, di menzogne normalizzate, di paure organizzate. Parla del prezzo pagato da chi rifiuta il silenzio. Parla di Velia, che rifiuta la messinscena e difende il confine tra Stato e partito. Parla di noi, della nostra capacità – o incapacità – di riconoscere il momento in cui la violenza smette di essere “incidentale” e diventa sistema.
Il 16 agosto è un appuntamento col vero. Non serve il santino, non serve il mito. Serve ricordare che un parlamentare venne rapito in pieno giorno a due passi dal Parlamento, che il suo corpo fu nascosto in un bosco, che la verità venne piegata e poi rovesciata a colpi di decreti.
E serve, soprattutto, una promessa semplice: non voltare lo sguardo quando la realtà chiede di essere guardata.
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