«La mia idea non muore»: il grido immortale di Matteotti
Il 10 giugno 1924, alle ore 16:00 circa, Giacomo Matteotti, deputato socialista e voce libera del Parlamento, usciva dalla sua casa romana per non farvi mai più ritorno. Stava per raggiungere la Camera per intervenire contro l’abuso del potere e denunciare brogli e violenze nelle recenti elezioni politiche. Ad attenderlo, sul lungotevere, non c’era la democrazia, ma la morte. Cinque uomini, fascisti agli ordini di Amerigo Dumini, lo rapirono, lo picchiarono e lo uccisero brutalmente.
Un delitto politico. Un omicidio di Stato. Una macchia nera nella storia della nazione che ancora oggi — 101 anni dopo — grida giustizia e pretende memoria.
L’assassinio che smascherò il regime
Matteotti aveva denunciato pubblicamente, pochi giorni prima, il clima di intimidazione e illegalità che aveva falsato il voto del 6 aprile 1924. Il suo celebre discorso del 30 maggio, interrotto da urla e insulti, è ancora oggi uno dei più limpidi atti d’accusa alla nascente dittatura: «Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano…».
Fu proprio questo atto di coraggio a decretarne la condanna. Il fascismo reagì con la violenza che gli era connaturata: Matteotti fu rapito, ucciso e fatto sparire. Solo il 16 agosto 1924, il suo cadavere fu ritrovato a Riano, dopo mesi di angoscia e silenzi.
L’omicidio scatenò un’ondata di sdegno in tutta Italia. I partiti di opposizione lasciarono i banchi della Camera: nacque la celebre secessione dell’Aventino. Ma il regime, sotto la guida spregiudicata di Mussolini, riuscì a tenere saldo il potere. Il 3 gennaio 1925, lo stesso duce si assunse la «responsabilità morale e politica» del delitto, preludio alle leggi fascistissime che stroncarono ogni residuo di libertà.
A rendere eterno il nome di Matteotti fu anche la leggendaria testimonianza riportata su l’Unità il 15 giugno 1924, attribuita a uno dei suoi carnefici:
«Assassini, barbari, vigliacchi! Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai… Viva il socialismo!»
Che quelle parole siano vere o leggenda, poco importa: Matteotti è diventato simbolo. Simbolo di chi non si piega, di chi alza la voce anche quando tutti tacciono, di chi sa che la verità ha un prezzo. Ma anche che vale ogni sacrificio.
Nel 1955, la Repubblica italiana riconobbe ufficialmente Giacomo Matteotti come martire. Ma troppo spesso la sua figura è stata celebrata con rassegnazione o retorica. Eppure, in tempi di risorgenti autoritarismi, revisionismi e memoria corta, il 10 giugno non è solo un anniversario. È un monito.
Perché il fascismo non fu solo manganello e olio di ricino. Fu anche bavaglio, manipolazione, paura. Violenza. Morte. E chi osava parlare — come Matteotti — veniva fatto sparire.
Nel centunesimo anniversario del suo assassinio, ricordare Matteotti è un atto di resistenza civile. È onorare il coraggio di chi ha pagato con la vita la coerenza con i propri ideali. È dire che, oggi come allora, la democrazia non è un dato acquisito, ma una conquista da difendere ogni giorno.
Che sia nelle scuole, nelle piazze, nei parlamenti o nei giornali, il 10 giugno non può passare in silenzio. Ogni anno, ogni generazione deve sentirsi chiamata a interrogarsi: cosa faremmo noi al posto suo?
Giacomo Matteotti fu un uomo di dignità, di libertà, di coscienza democratica.
Oggi il suo grido risuona ancora: «La mia idea non muore!».
E non morirà, finché ci sarà chi avrà il coraggio di gridarla in faccia al potere.