La libertà di stampa in Italia compie un passo avanti decisivo. Con la sentenza n. 27853 del 29 luglio 2025, la Cassazione penale, quinta sezione (presidente Rosa Pezzullo, relatore Rosaria Giordano), ha stabilito un principio di straordinaria rilevanza: la condanna per diffamazione in sede penale è ammissibile solo in casi circoscritti, ossia quando vi sia un attacco diretto, aggressivo e totalmente ingiustificato alla persona.
In tutti gli altri casi, soprattutto quando l’articolo o l’inchiesta riguarda temi di interesse pubblico come i rapporti tra politica e informazione, deve prevalere il diritto alla critica e al dibattito.
Il nuovo principio giuridico
I giudici supremi hanno chiarito che, ai sensi dell’articolo 51 del codice penale (esercizio di un diritto), la scriminante della libertà di informazione e di critica politica va interpretata in chiave costituzionale:
«in caso di diffamazione qualora la notizia abbia ad oggetto l’influenza della politica o di altri fattori sugli stessi mezzi di informazione, la scriminante deve essere vagliata tenendo conto dell’esigenza di assicurare un pubblico dibattito sul pluralismo informativo, rinvenendosi l’unico limite in un attacco aggressivo alla persona privo di giustificazione».
Un passaggio che segna un netto cambio di passo nella giurisprudenza italiana, e che recepisce le linee guida della Corte Costituzionale.
Il richiamo alla Consulta
La sentenza, nelle sue otto pagine di motivazione, si aggancia infatti alla pronuncia n. 44 del 16 aprile 2025 della Corte Costituzionale, che ha ribadito come il pluralismo dell’informazione rappresenti un valore centrale dell’articolo 21 della Costituzione e un presupposto irrinunciabile per la democrazia.
La Consulta ha precisato che la libertà di informare e il diritto ad essere informati sono «condizione preliminare per l’attuazione, a ogni livello, della forma democratica dello Stato».
Il caso TvZoom
La vicenda concreta riguarda il quotidiano online TvZoom e un articolo pubblicato nel 2019 dalla giornalista Tiziana Leone, sotto la direzione di Andrea Amato.
Il pezzo – intitolato “La pietosa compravendita delle nomine della Rai dimostra che la politica e viale Mazzini sono una cosa sola” – denunciava la lottizzazione politica delle nomine Rai, citando tra gli altri il giornalista Milo Infante.
Secondo l’accusa, l’articolo aveva leso la reputazione di Infante, attribuendogli una nomina legata alla Lega e mettendo in dubbio la sua professionalità.
Condannati in primo grado e in appello a Milano, Amato e Leone sono stati invece assolti in via definitiva dalla Cassazione. La Suprema Corte ha riconosciuto che le frasi incriminate non costituivano un attacco personale, ma rientravano nella critica politica legittima su un tema di forte interesse pubblico.
Una svolta per il giornalismo italiano
La decisione ha un valore che va oltre il singolo caso. Stabilisce, di fatto, che la critica politica e istituzionale, se non è mera aggressione personale, non può essere schiacciata sotto il peso delle condanne penali per diffamazione.
È una scelta di civiltà giuridica, che rafforza il diritto di cronaca e di critica dei giornalisti, protegge il dibattito pubblico e rende più difficile l’uso strumentale delle querele come bavaglio all’informazione.
In una fase storica in cui la libertà di stampa è sotto pressione, la Cassazione e la Corte Costituzionale hanno tracciato una rotta chiara: la democrazia vive di informazione libera e pluralista, e solo l’attacco personale ingiustificato può travalicare quel limite.
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