L’orazione di Alberto Moravia ai funerali di Pasolini: il giorno in cui l’Italia capì di aver perso un poeta
Roma, 5 novembre 1975: la voce di un amico trasforma il lutto in coscienza civile. E quelle parole – ancora oggi – ci interrogano.
Il corpo di Pier Paolo Pasolini è stato ritrovato poche ore prima che il Paese scoprisse di aver perso non solo uno scrittore, ma una coscienza critica. A Roma, tra abbracci rotti e silenzi ostinati, prende la parola Alberto Moravia: non un cerimoniere, ma un amico. La sua orazione, breve e tagliente, evita la retorica e scava nel cuore del lutto collettivo: abbiamo perso un poeta – e i poeti non sono mai molti.
Il punto non è l’agiografia. Moravia compie un gesto radicale: ricolloca Pasolini al centro della polis. Dice, in sostanza, che la sua rarità non è un pregio da catalogo, ma un dovere per tutti: custodire la verità quando brucia. Con parole semplici, indica tre assi:
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La rarità del poeta. Non è “uno dei tanti”: è un misuratore del nostro tempo. Se manca, si spezza la bussola.
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Il coraggio del vero. Pasolini non addolciva nulla: puntava la luce dove il Paese preferiva l’ombra.
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La funzione civile. Non un santino, ma un testimone scomodo che costringeva a scegliere.
Le orazioni di solito chiudono. Questa, paradossalmente, apre. Apre la stagione della memoria attiva: leggere, rileggere, contraddirsi perfino, ma non smettere di fare i conti con un’opera che ha radiografato consumi, linguaggi, poteri. Nella voce di Moravia c’è un pronostico implicito: Pasolini conterà nel lungo periodo. E infatti è andata così: scuole, università, teatri, giornali – nessun archivio riesce a contenerne davvero l’onda.
Pasolini “poeta raro”: cosa significa oggi
Oggi “poeta” non è una medaglia, è una pratica di realtà. È l’atto di dire: guarda qui, guarda meglio, guarda controvento. Per questo quelle frasi restano utili (oltre che belle): sono una verifica periodica del nostro rapporto con la verità. Se un Paese perde la sua capacità di ascoltare i poeti, perde il futuro.
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“Abbiamo perso un poeta.” È la diagnosi, non lo slogan.
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“Il poeta è raro.” Appunto: non sostituibile.
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“La verità non si addomestica.” Né ieri, né oggi.
Pasolini non si archivia: il monologo che inchioda l’Italietta piccolo borghese
C’è un punto in cui la memoria smette di essere celebrazione e diventa chiodo. Il monologo di Paolo De Chiara, al Premio Nazionale Pasolini 2025 (Venafro), è esattamente questo: un chiodo piantato nel legno duro dell’oblio italiano.
Niente veli, niente fiocchi: una lingua che graffia, un ritmo che incalza, un rosario laico di domande e contraddizioni. Lì dove il Paese ha spesso abbassato lo sguardo, la parola torna a guardare dritto.
De Chiara attraversa i processi, le versioni comode, i buchi d’indagine, le voci ignorate. Rievoca l’idroscalo di Ostia, la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, il corpo massacrato e l’eco di una verità che non ha mai smesso di bussare.
Cita la ferocia di “Salò” per dire il potere che “ci fa mangiare merda”, e lo fa senza addolcimenti: perché l’Italia, ieri come oggi, ha bisogno di parole che non chiedono permesso.
Non è un esercizio di nostalgia.
È una chiamata alle armi civili: ricordare, verificare, pretendere. “State attenti, l’inferno sta salendo da voi” – qui la memoria non consola, costringe.
Perché guardarlo
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Per farsi male bene. La memoria vera brucia: serve a non ripetere, non a pacificare.
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Per rimettere a fuoco Pasolini. Non un santino, ma un testimone scomodo.
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Perché il presente è il banco di prova. Le stesse dinamiche – potere, menzogna, rimozione – circolano ancora.
Guarda il video integrale: ascolta, respira, decidi da che parte stare.
Il monologo contiene passaggi forti, nomi, date, ricostruzioni, domande rimaste sospese. Il senso dell’operazione è chiaro: non archiviare.






