A Cremona, nel cuore della 4ª edizione del Premio Nazionale Lea Garofalo, è andata in scena una assurda situazione che avrebbe fatto fremere Lea, quella fimmina calabrese che non aveva paura di dire ciò che altri sussurravano. Davanti a studenti, docenti, magistrati, cittadini, la parola è diventata pietra. E le pietre, si sa, fanno rumore quando cadono.
Sul palco, durante il convegno dedicato alla memoria di Lea Garofalo, il Procuratore della Repubblica di Brescia, Francesco Prete, ha affermato che “la mafia siciliana, quella corleonese in particolare, possiamo dire che sia stata sconfitta.
Lo diciamo con prudenza.
Possiamo dire che lo Stato ha vinto… perché ha messo in campo le sue risorse migliori… perché siamo riusciti a reprimere il fenomeno”.
Parole nette. Definite. Ottimiste. Forse troppo. Anzi, devastanti. Pericolose. Lo diciamo con parole terra terra: una grande cazzata. Ed è qui che la sala ha trattenuto il fiato.
Al tavolo sedeva pure Paolo De Chiara, direttore di WordNews.it, presidente di Dioghenes APS e autore di “Una fimmina calabrese”. Ha preso la parola.
E non ha fatto sconti a nessuno. Nel video, in basso, i due interventi che si contrappongono.
La verità scomoda che molti non vogliono sentire
Non è questione di opinioni, non è dialettica. È storia, è giustizia, è sangue. Paolo De Chiara ha risposto che no, la mafia non è stata affatto sconfitta. E che dirlo davanti ai giovani, davanti ai ragazzi che cercano ancora il filo della verità dentro un Paese che di fili ne ha spezzati troppi, è un atto pericoloso. Ha ricordato (e lo ribadiamo anche in questo articolo) tutte quelle ombre che camminano ancora tra noi:
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i condannati per mafia ancora presenti sulla scena politica regionale e nazionale, accolti, riciclati, utilizzati, quasi giustificati;
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i mandanti e gli esecutori delle stragi di Stato mai individuati;
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i legami istituzionali, politici, massonici che non sono stati spezzati ma solo mimetizzati;
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l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino, mai ritrovata, come una ferita che ancora pulsa;
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le intercettazioni Mancino–Napolitano, mai rese pubbliche, perché distrutte (forse), perché scomode, certamente;
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le trattative, le zone grigie, i silenzi di Stato che ancora oggi governano interi pezzi di questo Paese.
E poi la domanda più semplice, quella che brucia più di tutte: come si può dire ai giovani che la mafia è stata sconfitta?

Il rischio più grande: educare alla rassegnazione
Perché dichiarare “vittoria” quando la battaglia è in corso non è solo un errore: è un “tradimento”. Tradimento della storia, della verità, della memoria. Tradimento di Lea Garofalo, di Borsellino, di Falcone, dei giudici, dei cronisti, dei cittadini comuni che hanno resistito, pagato, combattuto.
Tradimento di quei ragazzi presenti in sala, che non hanno bisogno di fiabe consolatorie, ma della verità nuda e ruvida.
Dire che la mafia è stata sconfitta significa:
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ignorare le mafie economiche, politiche, imprenditoriali, oggi più potenti che mai;
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ignorare il potere finanziario dei clan, che si infilano nei bandi, nelle opere pubbliche, nei fondi europei;
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ignorare le infiltrazioni nello Stato, nelle massonerie deviate, nella politica;
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ignorare che la criminalità organizzata non spara più perché non ne ha bisogno: oggi firma contratti, guida imprese, compra consenso, orienta voti, elegge amministratori.
La mafia siciliana non è stata sconfitta. E’ viva, è vegeta e lotta insieme a noi. Cosa nostra ha cambiato forma. Lo fa da secoli. E non riconoscerla significa lasciarle campo libero.
La memoria non si addomestica: Lea lo insegna
Il Premio dedicato a Lea Garofalo non può trasformarsi in un salotto di rassicurazioni. In una passerella istituzionale. Lea è stata rapita, torturata, bruciata in un bidone per tre giorni perché aveva scelto di dire No.
Lei non avrebbe mai accettato una narrativa accomodante. Non avrebbe accettato un Paese che si racconta vincente mentre lascia intatti i centri di potere, le coperture, le omissioni. La verità non è mai educazione al pessimismo.
È educazione alla responsabilità.
La mafia non è stata sconfitta. È stata resa più silenziosa, più “elegante”, più istituzionale. Per questo, pronunciare quella frase, “abbiamo vinto”, non è solo un errore: è un pericolo che rischia di scolorire la memoria di Lea, di Borsellino, di Falcone, di Chinnici, di Siani, di Alpi. Di tutti coloro che sono stati ammazzati. Significa non pensare ad individuare i criminali (mafiosi e di Stato): i mandanti e gli esecutori. Da Portella della Ginestra (1° maggio 1947), in poi.
E allora, finché qualcuno avrà il coraggio di alzarsi e dire “No, non è vero”, finché ci sarà chi rompe il coro e accende una luce scomoda, la memoria continuerà a vivere. E forse un giorno, davvero, potremo dire di aver vinto.
Ma quel giorno non è oggi.
Oggi è il giorno della verità. E noi le cazzate le rispediamo al mittente.
“UNA FIMMINA CALABRESE. Così Lea Garofalo sfidò la ‘ndrangheta”





