Michelangela Barba, presidente dell’associazione Ebano Onlus. E’ stata premiata come Testimone del nostro Tempo alla IV edizione del premio nazionale Lea Garofalo. Quanto è importante oggi parlare di queste tematiche nelle scuole?
È importante parlarne ma, mi permetto di dire, non solo a scuola: dobbiamo superare l’idea che l’educazione (oltre ché l’istruzione) sia un “problema” delle istituzioni scolastiche. Gli adulti -tutti gli adulti- hanno la responsabilità di essere comunità educante, in ogni contesto.
Perciò a scuola sì ma anche nei luoghi di aggregazione e di pratica sportiva, tutta la comunità educante deve essere attenta portavoce di valori fondamentali come la legalità. Come si fa a insegnare la legalità a scuola se poi qualche ora dopo gli stessi ragazzi ricevono istruzioni dall’allenatore di calcio di accentuare un contatto per ottenere un rigore? Gli insegnanti spesso si trovano soli a portare avanti la battaglia della formazione umana degli allievi e non è giusto.
Con la vostra associazione vi occupate di violenza maschile sulle donne e di tratta sessuale. Qual è la situazione attuale in entrambe le tematiche?
Per quanto riguarda la violenza domestica c’è molta più consapevolezza e attenzione sociale…purtroppo a scapito delle altre forme di violenza perché per esempio della violenza sessuale non si parla quasi più tranne per qualche caso di cronaca eclatante. Idem per la tratta a scopo sfruttamento sessuale: il COVID ne ha spostata buona parte al chiuso degli appartamenti e questo è bastato a fare pensare a una “risoluzione spontanea” (è magica!) del fenomeno.
In realtà la situazione è stagnante almeno per quanto riguarda il riconoscimento di forme di tratta più complesse come la tecnica del lover boy, per il cui riconoscimento tra le forme di tratta Ebano Onlus si è tanto battuta. L’unico segnale positivo che ho potuto osservare è che ad esempio la tecnica del lover boy viene nominata talvolta (non sempre a proposito) dai giornali e nei documenti ufficiali. Spero che sia l’inizio di una maggiore consapevolezza collettiva.
Come operate con la vostra associazione nel contrasto di tutto ciò?
Innanzitutto con l’ascolto e la presenza: a Milano abbiamo tre centri di aiuto sociale in tre contesti dell’edilizia popolare in quartieri a rischio, a Parco verde di Caivano abbiamo sostenuto l’apertura di una biblioteca per l’infanzia. Solo attraverso la relazione di fiducia data dalla conoscenza pressoché quotidiana può nascere vera emersione. Poi abbiamo 20 appartamenti di accoglienza per donne in difficoltà, autosostenuti, per i quali non riceviamo nessun tipo di contributo pubblico proprio perché destinati ad accogliere le donne (e i loro figli) che non rientrano nei criteri dei percorsi finanziati dunque non c’è un servizio sociale che paga un retta. Sono esempio le donne vittime di maltrattamenti in famiglia che hanno usufruito dei 180 GG di accoglienza che la Prefettura paga ai centri antiviolenza.
Ma se al giorno 181 il Comune di residenza non subentra nel pagamento della retta (magari banalmente perché nel frattempo il violento le ha cancellate dallo stato di famiglia o perché essendo straniere non avevano una residenza) vengono dimesse. Oppure le donne che hanno subito sfruttamento della prostituzione ma che non sono in grado di dimostrare lo sfruttamento subito dunque non accedono ai percorsi ex art. 18 (come le vittime adescate con il metodo del Lover Boy). E l’elenco potrebbe continuare…
Cosa servirebbe oggi, sia a livello giuridico sia a livello sociale, per contrastare violenza e tratta sessuale?
Abbiamo presentato fin dal 2019 un progetto di legge per rendere lo sfruttamento della prostituzione sempre e a tutti gli effetti un reato contro la persona, uscendo dall’empasse dell’originaria formulazione della legge Merlin che lo colloca tra i reati contro la morale. Dopodiché servirebbero percorsi di reinserimento anche per quelle donne che non possono dimostrare di essere state costrette a prostituirsi. Per quanto riguarda le altre forme di violenza una maggiore flessibilità, duttilità e celerità degli strumenti che già esistono. E la possibilità di svolgere serie ricerche di lungo periodo.
E la politica vi ascolta?
Purtroppo la politica corre dietro alle emergenze e ascolta solo ciò che può servire a dare all’opinione pubblica un riscontro immediato… Si lavora per “progetti”, quando va bene triennali, ma manca il pensiero di lungo respiro. Parliamo da un lato di un fenomeno criminale che negli ultimi 30 anni ha mutato le modalità ma non ha mai smesso di proliferare e dall’altro di una forma di violenza endemica, ancorata a modelli sociali vecchi di secoli. Come si può sperare di ottenere risultati duraturi ragionando sempre sul breve periodo?





