In un giorno di primavera di qualche anno fa, passeggiando lungo il viale che attraversa la città come scia sonnolenta e scontrosa, per giungere poi ai piedi del grande “acciaio” di Umberto Mastroianni, amplificandone finanche l’ipotetica voce, Alberto D’Alessandro prese a dirmi di questo luogo, del disinganno, dell’abbandono, del ritorno diffidente. “Vedi, sembra quasi una città araba. La politica si gesticola nelle piazze e ogni parola si trascina all’aperto, tra i caffè che ogni giorno rubano centimetri al paesaggio”.
Non mi pareva entusiasta di quel “clima”, lui abituato ad una sorta di pragmatismo magico in cui, in ogni caso, le regole e i rapporti hanno fondamenta meno precarie. Forse per questo Alberto D’Alessandro ha scelto di vivere alla periferia della periferia, tra querce granitiche e cespi disinvolti di ginestre vigorose. Ovvero tra la “voce della luna” e il chiarore che al mattino chiama a raccolta gli uomini e i cani. Sull’ampio spazio di argilla erbosa s’apre la casa-studio, come se una celata comunione di intenti ne regolasse il tempo artistico e quello decretato dalle ore familiari. D’estate, talvolta, raccogliamo parole oziose che trovano posto sui lembi di nuvole grasse. E ci sorprendiamo ad immaginarne la rotta stemperata dal vento. Fantastichiamo su chi riceverà il riverbero di quei suoni lenti.
C’è da chiedersi, fatalmente, quanto pesi – per un artista – la suggestione del “luogo abitato”. Nel bene o nel male, nell’assorbimento o nella rinuncia, nell’immedesimazione o nel rifuggire. Credo che Alberto D’Alessandro l’abbia adottata in pieno come sillabario del proprio andare; come scrittura rigorosa e discreta del suo fare pittura. Alle tematiche del quotidiano – e alla loro misurata amplificazione – D’Alessandro mira fin da giovane, quando, esaurita l’esperienza accademica vissuta nel vigore della cultura romana a metà degli anni settanta, decide un “ritorno” a quelle origini territoriali fatte di silenzi secolari e di identità familiari. Ma un ritorno che non suona come rinuncia o rifiuto delle acquisizioni giovanili, bensì quale sostanza, intima e affabulato ria, del suo incedere.
La “periferia” è per lui il territorio di una narrazione ponderata, minuziosa, prosciolta dalle ipotesi incessanti che l’accanimento metropolitano propone e produce con disinvolto cannibalismo. Il luogo di Alberto D’Alessandro è pertanto il laboratorio in cui l’alchimista ordina e dosa – in maniera mai ostentata – i propri “sodalizi”: temporali, affettivi, intimi umorali. Dell’esuberante “figurazione” dell’esordio – retroterra indispensabile per ogni ulteriore tragitto – restano gesti cromatici di profonda determinazione che ancora oggi sembrano propiziare i grandi spazi denudati di ogni qualsivoglia reperto formale. Un processo lento, meditato anch’esso, colmo di intervalli talvolta “rovesciati”, comunque capaci di attribuire all’attesa i comandamenti di un nuovo prologo.
Il luogo è dunque una sorta di inesauribile dispensa dalla quale asportare – con equilibrata periodicità – gli oggetti (o meglio, i segni) della propria cronaca, per ricomporli – e reinventarli – poi nelle ragioni della tela. Le Traslazioni che accompagnano, come ossessivo refrain, la vicenda pittorica del nostro autore per tutti gli anni novanta, altro non sono che immaginifici “paesaggi della memoria” dove le sagome del ricordo faticano ad imprimere la loro presenza, strette tra sacche di nebbia violacea e accordi di luce millenaria: brandelli geometrici comunque capaci di confidarci – come perle di una scrittura labirintica – storie minute, affanni, inquietudini. Non meno inquietanti sono gli Alberi che D’Alessandro dipinge ininterrottamente alla fine dell’ultimo decennio. Darà a loro, sarcasticamente, una titolazione comune – cespi – e li catalogherà, con altrettanto sarcasmo, per numeri consequenziali, quasi a promuovere un prezioso inventario della coscienza. Alberi smisurati, solitari, malati, imprigionati quasi nella forzatura di un modello monocromatico che rende vana ogni presunta profondità o rassicurante prospettiva. Un’amplificazione estrema dell’oggetto dipinto, una sorta di grido sofferente, il segnale – quasi indignato – di un arrendevole sacrificio.
Un percorso, questo, oltremodo suggerito e alimentato dalle opere recenti – lande – poste come ultimo limite di un processo testimoniale più intimo e profondo in cui il luogo – forse definitivamente – svela la sua essenza reale. Quello di strumento visivo di una deformazione incalzante, drammatica, violenta. Nelle “lande” di vermiglio o in quelle in cui l’indaco cela anche l’ultima traccia remota c’è una sorta di “fiuto apocalittico”. E ben sappiamo quanto l’are, nella ciclicità del tempo, sia stata prologo di ogni successivo scenario.
ALBERTO D’ALESSANDRO
Nato a Pignataro Interamna (FR) nel 1946, ha frequentato il Liceo Artistico di Frosinone. Negli anni 70 contribuiscono al suo arricchimento formativo la frequenza dell’Accademia di belle Arti di Roma e, successivamente, la collaborazione come insegnante alla cattedra di Mariano Zela. Dopo una prima fase di attrazione dalla tensione sociale ed esistenziale presenti nel linguaggio del movimento artistico romano di “Nuova Figurazione”, se ne distacca per una scelta più rigorosamente legata alla pittura in tutte le sue caratteristiche tecniche e storico- culturali. Successivamente avverte un indebolimento delle motivazioni iniziali e si dedica con particolare impegno a specifiche ricerche sul colore che diverranno filo conduttore della sua poetica a venire. Le sue opere attuali sono sommario rigoroso di una intensa mediazione cromatica e formale. Tra le sue presenze espositive in Italia ricordiamo le personali più significative tenute a Cassino, Frosinone, Roma e Caserta. E’ stato inoltre protagonista di numerose mostre collettive dalla prima metà degli anni 80 ad oggi (tra le altre, la sua presenza alle Biennali del Piccolo Formato di Campomarino, l’Expò Levante di Bari, La Città Museo di Boville Ernica, la Rassegna internazionale Mail Art al Museo Arte Contemporanea di Termoli, e alla mostra Zona di Confine tenutasi a Palazzo S. Agostino di Caserta. Significativi gli scritti sulla sua opera di Loredana Rea, Marcello Carlino, Rocco Zani, Enzo Battarra, Giuseppe Varone, Tommaso Evangelista, Elmerindo Fiore.
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2020-06-17 13:05:29
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