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Discesa in campo, discesa senza fine

by Serena Verrecchia
26 Gennaio 2021
in Approfondimenti
Reading Time: 5 mins read
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Era il 26 gennaio del 1994, esattamente ventisette anni fa. L'homo novus venuto dal Nord lanciava il primo sassolino nell'acquitrino paludoso della scena politica italiana. Si presentava tutto imbellettato, elegante e muscolare, col sorriso scintillante e lo sguardo aguzzo di chi sa come risolvere i problemi. Non erano anni ordinati e pacifici, era un caos. Il sistema era imploso su se stesso, collassava e si tormentava nell'agonia di una stagione di profondi cambiamenti.

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C'erano state le stragi del '92 e le bombe del '93. C'era stata Tangentopoli con l'incredibile sconquasso che ne era derivato. C'era una classe politica con l'acqua alla gola, avviata ormai al tramonto definitivo. E c'era un imprenditore milanese che si presentava come l'uomo giusto per “costruire un nuovo miracolo italiano”. Aveva cinquantotto anni, ma sembrava un ragazzino.

“L'Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti”.

E pure i miei guai giudiziari, verrebbe da dire.

Con Silvio Berlusconi il conflitto di interessi s'è fatto Stato, ma nessuno sembrava scandalizzarsi più del dovuto. Allora come oggi.

Tre giorni prima, il 23 gennaio 1994, una bomba sarebbe dovuta esplodere allo Stadio Olimpico di Roma, durante la partita Roma-Udinese, provocando una delle più disastrose stragi della storia di questo Paese. Non accadde nulla, il telecomando non rispose ai segnali.

Un giorno dopo, il 27 gennaio, a Milano venivano arrestati i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss di Cosa nostra appartenenti all'ala stragista che faceva capo a Bagarella e Riina.

In mezzo, c'è lui: Silvio Berlusconi, l'uomo nuovo della politica italiana che è saltato nell'acquitrino e si è divertito a schizzare tutto il resto.

La Trattativa Stato-mafia, come risulta dalle carte della sentenza di primo grado, era ancora in atto. Arrestato Riina, gli erano subentrati Bagarella, Brusca e Graviano. Arrestato Vito Ciancimino, il tramite dell'accordo tra lo Stato e Cosa nostra, era piombato sulla scena il “paesano” Marcello Dell'Utri, che interloquiva con Vittorio Mangano.

In Sicilia, i boss avevano scaricato i vecchi referenti politici della DC e avevano ammazzato Falcone. La Trattativa iniziava a tessersi poco alla volta. Passava per il sangue di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta. Nell'isola avanzava l'ipotesi di creare un partito gestito direttamente dalla mafia, Sicilia Libera. Il tentativo poi naufragò, non se ne fece più nulla.

Diversi collaboratori di giustizia hanno parlato di contatti dei boss con Silvio Berlusconi per il tramite di Marcello Dell'Utri. Contatti che erano già esistiti in passato, quando l'imprenditore milanese doveva essere avvicinato per arrivare a Craxi. E quando il suo nome compariva nel libro contabile di Giusto Natale, il tesoriere di Cosa nostra, che annotava la cifra di 250 milioni per le antenne televisive del milanese (cifra poi incredibilmente confermata da Riina stesso intercettato in carcere).

Il famoso incontro al Bar Doney tra Spatuzza e Graviano apre scenari inquietanti sulla nascita della Seconda repubblica. “Ci hanno messo il Paese nelle mani”.

Proprio mentre all'hotel Majestic di Roma fervevano i preparativi per la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi con la nascente Forza Italia, Graviano rassicurava Spatuzza: “aveva un'aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quello che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa”.

Quello di Canale5 e il compaesano.

“So quel che non voglio e so anche quello che voglio”, diceva Berlusconi nel discorso con cui si presentava all'Italia. Aveva dalla sua parte giornali e televisioni, oltre che un impero finanziario, per poter vendere agli italiani la sua immagine di liberale audace e pulito che sognava “un'Italia più giusta”.

Per quell'Italia più giusta, ha depenalizzato reati per salvarsi dai processi. Ha inventato lodi, scudi, immunità e impedimenti per ritardarli e farli cadere in prescrizione. Ha corrotto giudici e testimoni, ha fatto cadere governi e altri ne ha messi in piedi per evitare il cappio della giustizia. Ha fatto la guerra ai “giudici politicizzati” come nessuno mai prima di lui. Ha fatto rimbalzare l'eco della sua voce su televisioni e giornali: lui, l'homo che si mantiene novus mentre tutto intorno invecchia e avvizzisce.

È attualmente imputato nel processo escort e nel Ruby ter, per aver indotto Gianpaolo Tarantini a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria e per corruzione di testimoni nel processo Ruby. Ed è ancora indagato per corruzione per aver comprato i senatori Razzi e Scilipoti – tornati alla ribalta nel politichese parlato degli ultimi giorni – per passare dell'IdV al Pdl e per finanziamento illecito ai partiti. Oltre che per concorso in strage, insieme a Marcello Dell'Utri, per le stragi del '92-'93. Ma queste sono solo sciocchezzuole di cui è meglio non parlare.

Dopo la condanna definitiva a quattro anni per frode fiscale, Silvio Berlusconi è diventato a tutti gli effetti un pregiudicato.

Sufficiente per poter ambire al Colle più alto della Repubblica.

Ventisette anni dopo la “discesa in campo”, il leader di Forza Italia potrebbe riciclare quello stesso discorso, cambiare giusto un paio di riferimenti e attualizzarlo meglio, per poi propinarcelo un'altra volta tale e quale. Solo che stavolta la sedia su cui posare le chiappe sarebbe quella del Capo dello Stato. Per “costruire un nuovo miracolo italiano”, oggi come allora.

Sono passati quasi trent'anni dalla discesa in campo e ancora continuiamo a scivolare. In basso, sempre più in basso, senza mai urtare qualcosa di solido, senza mai schiantarci sul fondo una volta per tutte. La discesa continua, interminabile, segno che, in questo Paese di gattopardiana memoria, tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. Sempre.

 

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