C’erano una volta tre uomini al telefono: un Presidente con la bava alla Casa Bianca, uno zar in vena di nostalgie imperiali ed un terzo costretto a rispondere tra un raid e l’altro. Potrebbe sembrare l’inizio di una barzelletta ma è solo la geopolitica nel 2025: surreale, squilibrata, e vagamente tragicomica. Donald Trump, con la sua solita abilità da piazzista di realtà parallele, ha recentemente telefonato sia a Vladimir Putin che a Volodymyr Zelensky. Nessuno sa esattamente cosa si siano detti, ma possiamo immaginarlo: promesse al primo, pacche sulle spalle al secondo, e zero soluzioni reali per chi sta nel mezzo e rischia la pelle ogni giorno.
Nel frattempo, tra una telefonata e l’altra, Putin non si accontenta più di giocare alla guerra solo sul fronte ucraino. Ha deciso di spostare pezzi anche sul confine con la Finlandia, come se stesse preparando una seconda tavola per il suo Risiko personale. Un segnale, certo. Ma anche qualcosa di più sinistro: un messaggio chiaro. Lo aveva detto fin dall’inizio, quando ancora i media si ostinavano a ridere sotto i baffi: Svezia e Finlandia non devono entrare nella NATO. Lo hanno fatto comunque. E ora, lo zar del terzo millennio mostra che la memoria russa è lunga, e che le vendette — in stile sovietico — si servono ghiacciate, magari proprio in Lapponia.
La decisione di Mosca di rafforzare la presenza militare al confine finlandese è tutto fuorché difensiva. È simbolica, strategica ma anche psicologica. Vuole ricordare al mondo — e soprattutto all’Europa del Nord — che la Russia non ha mai smesso di sognare il suo “cordone sanitario”, quello spazio di cuscinetto tra sé e l’Occidente. L’ingresso della Finlandia nella NATO ha smantellato quell’illusione. E per Putin è stata una ferita d’orgoglio, forse ancor più grave dell’invio di armi all’Ucraina.
Perché la Finlandia, per la Russia, è molto più che una linea rossa sulla mappa. È una vecchia conoscenza storica. Una di quelle ex repubbliche balcanizzate, resistenti, gelide, che hanno sempre avuto una relazione ambigua con l’Orso russo. E quando Helsinki ha deciso di voltare definitivamente le spalle a Mosca, è stato come se una parte dell’ex Impero si fosse strappata con uno schiocco. La militarizzazione del confine serve esattamente a questo: ricordarle che Mosca è ancora lì. E che può arrivare in fretta, con gli stivali nel fango e le bandiere nel vento.
Il paradosso, però, è che la mossa di Putin non isola la Finlandia: la rafforza. Perché l’Occidente, pur con le sue miopie, di fronte a certe minacce non può far finta di nulla. E l’idea che un altro conflitto possa accendersi alle porte del Baltico è già da sola sufficiente per alzare le antenne. Quello che il Cremlino presenta come autodifesa, l’Europa lo traduce come provocazione. E di fatto, lo è.
Nel mezzo, l’Italia. Che dire dell’Italia? Poco. Molto poco. Al recente tavolo con i principali vertici internazionali, la premier Meloni non c’era. Nessuno lo ha detto chiaramente, o forse non si è voluto dire. Intanto, fuori dal teatrino, si gioca una partita dove il silenzio conta quanto le bombe. E noi non siamo nemmeno tra gli spettatori, figuriamoci tra i protagonisti.
L’Italia è come quel compagno di scuola che si presenta al compito in classe senza penna, senza compiti, e con la scusa pronta: “La colpa è del traffico.” Mentre il mondo si polarizza tra chi alza muri e chi cerca ripari, noi guardiamo la cartina come fosse un disegno astratto, illudendoci che basti un comunicato stampa o un’intervista ben truccata per sembrare rilevanti.
Eppure, se c’è una cosa che questa ennesima escalation ci insegna, è che il futuro non aspetta. Né chi dorme né chi finge di capire. I giochi di potere tra giganti ci riguardano eccome, anche se fingiamo di non ascoltare. Putin sta testando la tenuta dell’Europa, la compattezza della NATO, la soglia della paura collettiva. E mentre lo fa, scivoliamo lentamente in una nuova normalità, in cui i confini si ridisegnano con la minaccia ed il consenso si costruisce col rumore delle truppe in marcia.
Il cinismo, lo ammetto, è l’unico filtro che ci permette di guardare questo scenario senza impazzire. Ma non dovrebbe diventare una corazza che ci impedisce di sentire. Perché ogni volta che un nuovo fronte si apre, ogni volta che una nazione si prepara a difendersi, ogni volta che un leader gioca alla guerra come fosse una recita teatrale… c’è qualcuno che perde davvero tutto.
Forse è ora di smettere di delegare il mondo a bambini col fiammifero in mano. E di tornare a pretendere adulti capaci di dire “basta” prima che tutto prenda fuoco.