C’era una volta la cucina italiana, patria dell’accoglienza, del calore e del sapore. Poi è arrivato Paolo Cappuccio, e ha pensato bene di condire il suo curriculum da chef con una spruzzata di discriminazione vintage, tipo spezia scaduta dal 1938.
Il suo post su Facebook è ormai leggenda trash:
“Seleziono chef. Sono esclusi comunisti e persone con problemi di orientamento sessuale”.

Applausi a scena chiusa. È riuscito a scrivere tre righe e a offendere mezzo Paese e due secoli di lotte civili. Un vero talento, peccato che non sia per la cucina ma per il revival dell’intolleranza.
Si vocifera che nel suo ristorante l’antipasto sia la nostalgia del Ventennio, il primo un bel fascio e fagioli, e per dessert una deliziosa omofobia flambé, servita con panna montata solo se approvata da CasaPound.
Siamo nel 2025, ma lui (nella foto che ricrea un detto napoletano molto spassoso) sembra uscito direttamente da un manuale scolastico degli anni ’30. Ma per lavorare con lui serve la camicia nera?
E i “comunisti”? Fuori! A meno che non si redimano a colpi di carbonara revisionista. Per le persone LGBTQ+? Guai! Il rischio è che il soufflé diventi troppo “fluido”.
Il caso Cappuccio è l’ennesima prova di quanto la discriminazione sia ancora servita a tavola, insieme a un piatto di populismo rancido.
Nel dubbio, noi ordiniamo altrove. Da chi cucina con rispetto, cultura, e magari anche un pizzico di intelligenza.
E Paolo? Magari aprirà un bistrot tutto suo: “La Trattoria del Pregiudizio”, menù fisso, cervello optional.
Lo chef Paolo Cappuccio ha messo la ciliegina sulla torta del disastro comunicativo. Prima ha sfornato un post discriminatorio, poi ci ha condito sopra una giustificazione flambé a base di “frustrazione”, “alcolizzati” e “amici gay come alibi”.
Perché si sa: “ho amici gay” è il nuovo “non sono razzista, ma…” del menù del giorno.
Cappuccio fa sapere che non sono stati i lavoratori a offendersi, e certo: se li hai già esclusi in partenza, difficile che vengano a commentare. È come mettere un cartello “vietato l’ingresso ai comunisti” e poi stupirsi se Gramsci non bussa.
Alla fine, resta il retrogusto amaro di una toppa che ha più buchi del colapasta. E vien quasi da pensare che lo chef, più che una brigata di cucina, abbia bisogno di una brigata di comunicazione.
O almeno di qualcuno che gli cucini una bella porzione di silenzio, al forno, senza contorno d’odio.




