C’è un momento, nell’intervista, in cui la voce di Gennaro Ciliberto cambia timbro. “Non stiamo sponsorizzando nessuno”, dice. “In passato, con tutti i limiti, dall’altra parte qualche risposta arrivava. Oggi no. Oggi è silenzio.” Da qui in avanti non è più un elenco di doglianze: è la cronaca di una resistenza civile.
Comincia da un dettaglio che dettaglio non è: una mail senza dominio istituzionale—non camera.it—che chiede il suo contatto. Ciliberto risponde come farebbe chiunque nel programma di protezione: prudenza, domande, identità da verificare. Poi la telefonata: diretta, su linea ordinaria. Il contenuto, per ragioni di sicurezza, resta coperto. Ma il metodo diventa notizia. “Non è normale. Non è prudente. Non è rispettoso.” Con i protetti si usano canali tracciati e protetti, punto.
La trama si infittisce quando Gennaro passa alla posta certificata. “Mandiamo PEC, alleghiamo documenti, prove. Non c’è contraddittorio. Neppure i miei due avvocati ottengono risposta.” Lo dice piano, come si dice una cosa scabrosa. “Sembra una strategia di sfiancamento.” Non un caso, un metodo: lasciare i testimoni a parlare al muro finché si stancano.
Poi l’immagine che resta appiccicata addosso: il chiosco dell’acqua sotto i quaranta gradi. Chiedi se è fredda, ti diranno sempre che è fredda. Ciliberto la usa per raccontare consulenze e verità confezionate che non passano dal dibattito pubblico ma dalle stanze del palazzo. “Si mette dentro chi è stato attore delle vicende e gli si lascia raccontare la propria versione dove non si vede e non si sente. Al chiosco è tutto freddo e buono. Fuori, un’altra storia.”
La stampa nazionale, aggiunge, non aiuta: “Controllata. I nostri comunicati non circolano come prima. C’è qualcosa che non deve arrivare.” Non lo dice con livore, lo dice da testimone che conta i silenzi.
Quando il discorso scivola sulla Commissione Antimafia, l’atmosfera si fa più densa. Cita gli scontri su Scarpinato e Cafiero De Raho—“quest’ultimo ha seguito molti testimoni da pm e procuratore, ha proposto inserimenti nel programma”—e poi torna indietro: 2011. Ricorda la sua respinta in Commissione ex art. 10. “Non scrissero che le mie denunce non valevano. Scrissero che non avevo denunciato. Le denunce c’erano. E quella era la mia massima pericolosità.” Quel giorno capisce che Napoli va lasciata da solo, in fretta. “Se fossi rimasto, forse oggi non parlerei.”
Le parole che feriscono non passano mai di moda. “Lo scurnacchiato”, lo chiamavano. E la vendetta, ricorda, non scade con le sentenze: “Le promesse d’odio si tramandano. Ex lo scrivono i documenti; nella vita ex non sei mai.” Per questo la categoria “ex testimone” gli suona come una condanna sospesa.
Poi c’è la burocrazia che schiaccia: cartelle esattoriali arrivate direttamente a ruolo perché la posta non veniva recapitata nelle località protette; dati anagrafici e certificati che si perdono; incontri con gli avvocati in stanze di polizia, telecamere sul soffitto (“spero spente”); commercialisti convocati nei comandi provinciali, tempi dilatati, costi a carico. “E quando dici che l’avvocato dovrebbe essere pagato dal Servizio, non ti risponde più nessuno. Fatevi una domanda.”
La sua povertà materiale non è ornamento narrativo: è prova. “Ho vissuto senza luce e senza riscaldamento. Mi lavavo al gelo. Aprivo scatolette con le mani. Non me ne vergogno. Non l’ho scelto io: ci ha spinti lì il sistema.” Nessun eroismo, nessuna posa. Solo vita nuda.
Intanto la legge—art. 17, L. 6/2018—dice una cosa semplicissima: i testimoni possono chiedere in qualunque momento di essere ascoltati; si procede entro 30 giorni davanti alla Commissione centrale o al Servizio Centrale di Protezione. Nel racconto di Ciliberto quei 30 giorni diventano sabbia nella clessidra: scorrono e non succede nulla. “Nessuna convocazione. Nessun contraddittorio. Ogni tanto una telefonata.”
Qui entra la politica. “Se la presidente Colosimo si è tenuta il Comitato testimoni, la domanda è facile: quanti testimoni ha udito? Dov’è il calendario? Perché la Commissione non funziona? E dov’è—tutti i giorni—l’incalzare delle altre forze politiche?” La cronologia, ricorda, è scolastica: denuncia → verifica → proposta → decisione. In mezzo, vite che non possono aspettare il giorno buono.
C’è un episodio che Ciliberto rivendica come pietra d’angolo della sua credibilità: Trento. “Mi dissero: ma qui la camorra? Lei sogna. Tre giorni dopo, cronaca: bloccato appalto da 4,3 milioni, operazione della squadra mobile. Per arrivare lì feci una colletta, dormii fuori dalla Questura. Dovevo farmi ricevere.” Non è un virtuosismo: è metodo di sopravvivenza.
Il finale non è un jingle: è un appello operativo. “Unitevi. Testimoni e famiglie, anche di chi non c’è più. Basta campanili: siciliani, napoletani, calabresi—siamo una sola categoria. Non chiamateci eroi: gli eroi sono i morti. Noi vogliamo essere cittadini. Uniti facciamo tremare i palazzi.” È la frase che raddrizza la spina: l’unione come antidoto allo sfiancamento.
Fuori campo, resta una domanda che pesa: perché la Commissione Antimafia non calendarizza le audizioni nei tempi di legge? E un’altra: chi ha autorizzato il contatto non protetto con un soggetto in protezione? Finché le risposte non arrivano, il racconto di Gennaro Ciliberto resta qui: un faldone di fatti, un metodo denunciato, una sopravvivenza che non fa sconti.
E una linea di fondo che non ammette ironie: ascoltare è un obbligo. Non un gesto di cortesia. Non una telefonata. Non una mail senza timbro. Un atto. Con data, firma e responsabilità.
Fonte: Informazione Antimafia (ultima puntata)
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