Nella pianura bassa tra Ravenna e Ferrara, dove la nebbia si mescola al sudore dei braccianti, la sera del 23 agosto 1923 un parroco cade sotto le manganellate.
Si chiamava Don Giovanni Minzoni, nato a Ravenna il 1° luglio 1885, cresciuto in seminario e destinato alla parrocchia di Argenta. La sua colpa, per gli squadristi fascisti, fu semplice e imperdonabile: stare dalla parte della gente, promuovere circoli popolari, sostenere l’acculturamento delle classi umili, difendere le prime esperienze di sindacalismo cattolico nella Bassa ferrarese.
Non un agitatore, non un tribuno, ma un prete che prendeva sul serio la parola giustizia.
Aveva conosciuto la guerra da cappellano militare volontario, riportandone una medaglia d’argento e l’idea che la pace si costruisce con i diritti e con il pane. Ad Argenta incontrò la povertà nuda del lavoro agricolo e l’arroganza dei proprietari retrivi, protetti dallo squadrismo. In quegli anni la provincia era terreno di ascesa per Italo Balbo, capo feroce dell’azione fascista, mentre ogni rivendicazione salariale veniva piegata a bastonate.
Nel 1923, quando i fascisti uccisero il sindacalista socialista Natale Galba, Minzoni non tacque, rifiutò ogni collaborazione col potere nero che avanzava, denunciò la violenza come metodo politico, ricordò che il Vangelo non è un lasciapassare per l’impunità ma una chiamata alla responsabilità. Le minacce divennero quotidiane, l’isolamento un muro, la decisione degli squadristi un verdetto.
La cronaca di quella sera è scarna e brutale: un’aggressione davanti alla canonica, il corpo del parroco spezzato, la fuga dei carnefici, lo sdegno della comunità. Lo scandalo travolse gli assetti locali al punto da costringere Balbo alle dimissioni da console della Milizia, ma la giustizia, come spesso accade quando la politica si impasta con la violenza, arrivò più tardi e più debole di quanto meritasse il reato. Restarono il lutto di un paese e la lezione di una vita che aveva scelto di proteggere i fragili senza chiedere permessi al potere.
Raccontare Don Minzoni oggi non è un esercizio di memoria rituale. È un atto civile. La sua biografia smentisce con i fatti le narrazioni accomodanti su un presunto fascismo dell’ordine e dell’efficienza. L’ordine del fascismo era l’ordine del manganello, l’efficienza del fascismo era l’efficienza della paura. In quella canonica di Argenta si vede nitidamente la natura del regime: ferocia organizzata contro chi educava, organizzava, emancipava. Un parroco che apre una sala di lettura è più pericoloso di cento comizi, perché semina libertà nelle pieghe della vita quotidiana.
La figura del sacerdote di Argenta parla anche alla scuola e ai media. Il suo impegno per lo scautismo, la volontà di portare libri e discussioni tra i lavoratori, la scelta di schierarsi con chi chiedeva salari dignitosi mostrano come l’antifascismo sia innanzitutto un’educazione alla cittadinanza. Le pagine del “Diario di Don Minzoni” curate da Luigi Bedeschi e pubblicate da Morcelliana nel 1965 non sono reliquie, ma strumenti vivi per raccontare ai ragazzi come si diventa cittadini.
A centodue anni dall’omicidio, il silenzio non è un’opzione. Ogni volta che qualcuno prova a minimizzare il passato con le lenti deformanti della nostalgia, ogni volta che la parola squadrismo viene trattata come una ragazzata d’epoca, ogni volta che si attacca chi informa, chi sindacalizza, chi organizza la cooperazione, il nome di Giovanni Minzoni torna a bussare alla porta del presente.
Non chiede vendetta, chiede verità: il fascismo fu violenza politica, fu intimidazione, fu omicidio. Il resto sono favole di cattivo gusto.
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