Non è solo un attacco. Non è solo un bombardamento. Quello che sta accadendo a Gaza, mentre scriviamo, è qualcosa di più profondo e più inquietante: è un tentativo di riscrivere la realtà, di spegnere ogni voce che possa raccontare l’orrore.
Israele avanza dentro la Striscia con una forza che non è più soltanto militare: è mostruosa. Quartieri interi rasi al suolo, ospedali devastati, scuole trasformate in macerie. Ed ora, persino i giornalisti vengono colpiti. Altri, ancora.
Cinque, tra cui una donna, nell’attacco all’ospedale Nasser di Khan Younis.
Quando un missile colpisce un ospedale e poi, pochi minuti dopo, arriva un secondo missile — il cosiddetto “double-tap”, che uccide soccorritori, medici, cronisti — non si parla più di incidenti. Si parla di strategia.
Una strategia che ha un obiettivo preciso: togliere gli occhi al mondo.
Da settimane Israele è entrato a Gaza con una determinazione senza precedenti. Le sue forze hanno preso d’assalto i quartieri di Gaza City, Jabalia, Zeitoun, Shuja’iyya. Migliaia di riservisti richiamati, carri armati che avanzano strada dopo strada, operazioni che non lasciano scampo. Non è solo un conflitto: è un assedio totale.
Gli sfollati sono ormai milioni. L’ONU parla apertamente di carestia indotta: intere famiglie intrappolate senza cibo, acqua, medicine. Gli ospedali ancora in piedi diventano bersagli, le scuole che accolgono sfollati vengono colpite. Chi resta vivo non sa più dove rifugiarsi.
E intanto, chi prova a raccontare tutto questo, chi tenta di mostrarci l’orrore, viene ridotto al silenzio.
Hussam al-Masri. Mohammed Salama. Mariam Abu Dagga. Moaz Abu Taha. Ahmad Abu Aziz.
Cinque nomi. Cinque voci che non racconteranno più nulla.
Lavoravano per Reuters, Al Jazeera, Associated Press, o come freelance. Erano lì per testimoniare, per farci vedere ciò che non vogliamo vedere, ciò che molti fingono di non sapere.
Li hanno uccisi.
E non è la prima volta. Dall’inizio dell’offensiva, più di 240 giornalisti hanno perso la vita a Gaza. Il mestiere di cronista è diventato il più pericoloso del mondo. Ogni volta che un giornalista muore, muore un pezzo di verità. Ogni telecamera spenta, ogni taccuino insanguinato, ogni voce silenziata è un passo verso il buio.
E allora la domanda è inevitabile:
cosa resta della realtà quando chi la racconta viene sistematicamente eliminato?
C’è un dettaglio che inquieta ancora di più: mentre i giornalisti muoiono, Israele ha mandato dieci influencer a Gaza. Dieci voci selezionate con cura per mostrare “l’altra faccia” del conflitto. Video patinati, immagini filtrate, narrazioni controllate: la guerra trasformata in un racconto addomesticato, privo di sangue, di dolore, di verità.
Mentre i droni colpiscono ospedali, gli influencer sorridono davanti alle telecamere, raccontando che “va tutto bene”, che “la situazione è sotto controllo”. E così, mentre le bombe tacciono i cronisti, qualcun altro costruisce un reality su misura, calibrato per l’opinione pubblica globale.
La domanda diventa ancora più urgente:
chi racconterà Gaza, se chi la vive viene eliminato e chi la filma viene scelto da chi bombarda?
Il Funzionario della sicurezza israeliana ha dichiarato che “nessuno dei giornalisti uccisi o feriti era tra i sei obiettivi di Hamas uccisi nel raid sull’ospedale Nasser”. Un’inchiesta militare è stata annunciata, come sempre.
Ma chi crede ancora a queste parole? Quanti “tragici errori” dobbiamo contare prima di capire che non sono più errori, ma prassi?
La comunità internazionale esprime “profonda preoccupazione”. Le ONG denunciano “violazioni del diritto umanitario”. Le Nazioni Unite chiedono protezione per i civili.
Parole. Solo parole.
E intanto, a Gaza, i missili non si fermano.
La verità è che il mondo ha scelto di guardare altrove. La sofferenza è diventata rumore di fondo, un brusio che non interrompe più la nostra quotidianità.
Ma possiamo davvero permetterci questo lusso? Possiamo restare a guardare mentre ospedali, scuole, redazioni diventano bersagli? Possiamo accettare che chi racconta la guerra venga eliminato con la stessa brutalità con cui si rade al suolo un edificio?
Se permettiamo che la voce dei giornalisti venga spenta, accettiamo implicitamente di vivere al buio. Non c’è neutralità possibile davanti alla cancellazione deliberata della verità.
Questo non è più un conflitto tra due popoli. È diventato uno scontro tra informazione e oblio. Tra testimonianza e propaganda.
Tra umanità e disumanità.
Chi ha il potere deve agire. Serve un’inchiesta indipendente, non interna. Serve protezione reale per medici e giornalisti. Serve aprire corridoi umanitari veri, non promesse. E serve smettere di chiamare “incidenti” quelli che sono atti deliberati.
Se lasciamo che tutto questo passi sotto silenzio, il silenzio sarà la norma.Gaza oggi è un avvertimento: se si può ridurre al silenzio un’intera popolazione, se si può eliminare chi la racconta e sostituirlo con influencer selezionati, allora nessuno di noi sarà più al sicuro.
E forse è proprio questo che qualcuno vuole: un mondo dove la verità non esiste più.
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