Richiamo secco all’ordine professionale e alle redazioni: basta confondere pubblicità e giornalismo. Il presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, interviene con toni netti sul confine — sempre più labile — tra contenuti editoriali e messaggi commerciali, tornando a ribadire che “l’informazione professionale ha un futuro solo se punta sulla qualità e l’attendibilità, non certo se diventa veicolo di marketing”.
L’appello ai colleghi è diretto: “Ribadisco l’invito a tutti i colleghi a porre la massima attenzione a fronte delle pratiche editoriali scorrette che tendono a confondere l’informazione giornalistica con la pubblicità”. E ancora: “Ai giornalisti non è consentito fare pubblicità, se non per scopi sociali, umanitari e non a fini di lucro. Il Codice deontologico è molto chiaro su quest’aspetto che sta diventando rilevante sia nelle grandi che nelle piccole testate”.
Le parole di Bartoli arrivano mentre nel settore aumentano prodotti “ibridi” e collaborazioni con brand che, soprattutto online, provano a infilarsi nei pezzi in forma di citazioni, link e interviste con forte esposizione commerciale. Un fenomeno che accende anche la dialettica sindacale: “Voglio ringraziare i Comitati di redazione per il crescente impegno a garantire l’autonomia e l’autorevolezza delle testate in cui lavorano — osserva Bartoli —. Ultimo caso la protesta del Cdr del Corriere della Sera per l’intervista a Jannik Sinner in cui erano ampiamente evidenziati gli sponsor del tennista”.
Il presidente insiste sul principio cardine della professione: trasparenza verso i lettori e separazione netta tra informazione e promozione. La partita si gioca nella credibilità: ogni volta che una testata lascia entrare la pubblicità dalla porta di servizio, rischia di perdere ciò che la tiene in piedi, la fiducia. E la fiducia, per natura, non si compra. Si costruisce.
Sul fronte delle regole, Bartoli ricorda competenze e percorsi: “Eventuali contestazioni disciplinari sono di competenza esclusiva dei Consigli di disciplina territoriali e, in seconda istanza, del Consiglio di disciplina nazionale”. Un richiamo che sposta il baricentro dalla polemica social alle sedi proprie della professione: gli organismi che valutano i comportamenti alla luce del Codice, distinguendo fra errore, opacità e violazioni.
Il nodo, però, non è solo normativo. È editoriale. La pressione commerciale, nell’ecosistema digitale, si traduce in formati sempre più mimetici: native advertising, branded content, product placement meno dichiarati. Il risultato, quando la cornice non è esplicitata, è un cortocircuito che inquina la notizia e svuota il ruolo del giornalista. È su questo crinale che l’Ordine rimette in fila i paletti: dichiarare quando un contenuto ha natura promozionale; evitare che marchi e sponsor diventino coprotagonisti del racconto; preservare l’autonomia delle scelte redazionali, anche a costo di dire dei no.
Il caso Sinner, citato da Bartoli, ha un valore esemplare per il sistema: non riguarda lo sport in sé ma il metodo, il modo in cui si costruiscono le interviste e si gerarchizzano gli elementi del pezzo. Se il brand prende il sopravvento, l’interesse pubblico scivola in secondo piano e la pagina si trasforma in vetrina.
La rotta indicata è chiara: qualità, attendibilità, autorevolezza. Niente scorciatoie. Perché un giornale vive — o muore — della reputazione che si guadagna ogni giorno. E se l’informazione si piega al marketing, smette di essere informazione. Bartoli lo dice senza orpelli: il futuro del mestiere passa da qui, dalla difesa ostinata di un confine che non è formalità, ma sostanza democratica.
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